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Un ballo nel fantastico sui passi di Stephen King: “Danza macabra” di Loredana Lipperini e Giovanni Arduino

Stephen King Libri e film

Non è questione di scaffali e di generi, è questione di specchi: il fantastico, come il realismo, ci fa vedere il nostro volto, però lo deforma, e così facendo coglie quello che non sappiamo vedere. È questo l’assunto alla base di Danza macabra. Un ballo nel fantastico sui passi di Stephen King (Bompiani), firmato dalla scrittrice e conduttrice di Fahrenheit (su Radio3) Loredana Lipperini e dal traduttore e consulente editoriale Giovanni Arduino.

A unire la parte maschile e quella femminile di questo libro è proprio il maestro del terrore Stephen King. La parte maschile conosce a fondo la sua opera, e l’ha anche tradotta a lungo. Quella femminile lo legge, e anzi lo rilegge ogni giorno.

Di conseguenza, questo non è un vero e proprio saggio, né tanto meno un’elencazione di titoli e autori. L’idea dei due autori è, piuttosto, capire cosa ne è di quegli archetipi che Stephen King rintracciò in Danse Macabre: Vampiri, Licantropi, Cose Senza Nome, Fantasmi, che nel frattempo hanno assunto nuove forme, e la leggenda dell’Uncino. Storie sussurrate di bocca in bocca, o di tastiera in tastiera, storie antiche quanto la nostra paura, che mutano aspetto e non cambiano mai.

L’idea, in altre parole, è provare a raccontare le nostre debolezze di esseri umani, e il modo in cui gli scrittori di letteratura fantastica le hanno viste e restituite. Capire le nostre paure, anche, che si inanellano indietro nel tempo fino alla paura più antica, che è quella che separa il bene e il male, l’ordine e il caos, l’apollineo e il dionisiaco.

Per gentile concessione della casa editrice, su ilLibraio.it pubblichiamo un estratto dell’opera:

Per inciso, è grazie ad Alien che le donne, sempre minoritarie nella scrittura di horror, e anche di fantastico, cominciano a prendersi un ruolo di primo piano nelle storie. Prima del salvataggio del gatto Jones nel drammatico conto alla rovescia prima dell’esplosione dell’astronave, il tenente Ripley era un personaggio fra gli altri, quello che era destinato a sopravvivere solo per un’interpretazione cinica delle quote rosa: secondo la sceneggiatura, la femmina sfuggiva alla morte solo per smentire le aspettative dello spettatore. Ellen Ripley arrivò come una sorpresa felice, a dieci anni dall’esplosione dei movimenti delle donne: il tempo giusto perché costituisse un’alternativa credibile alle altre donne del cinema di avventura. Cinque anni dopo, la compagna di Indiana Jones nelle sue peripezie con i Thugs del tempio maledetto corrisponderà ancora al vecchio stereotipo: è bionda, stupida e odia gli insetti. Ripley, invece, imbraccia armi e sfida alieni. Oltre che guerriera, è nomade, solitaria, lucida, indifferente alle tentazioni sentimentali. È bella, certo, ma senza concessioni alla seduzione: boccoli castani, sguardo fermo, un lungo corpo magro mostrato di sfuggita nelle ultime scene coperto da biancheria sportiva (simile a quella che, molti anni dopo, esibisce la Sposa di Kill Bill, mentre aspetta i risultati del test di gravidanza). Ma Ripley non è soltanto un’amazzone: come la Sposa, è una madre, capace di tenerezza nei confronti di un gatto o di una bambina, e persino – nel terzo e quarto film della serie – di disperato amore nei confronti del mostro che combatte. Nel 1991, Ridley Scott gira Thelma & Louise, trasformando due donne qualunque in avventuriere on the road. Nello stesso anno, un altro regista della saga di Alien, James Cameron, dirige Terminator 2, dove Sarah Connor, madre del Messia che salverà gli esseri umani, si scopre in debito con Ellen Ripley: non più ragazza smarrita salvata dall’eroe, ma donna che combatte per suo figlio e per il mondo tutto. Senza Ripley, forse, non sarebbe nata Lara Croft, venuta al mondo dei videogame nel 1995 come alternativa al supermacho e interpretata al cinema, nel 2001, da Angelina Jolie. E forse non sarebbe stata possibile una delle eroine più amate del cinema fantastico, la Trinity di Matrix: che, pure, abbandona la durezza della combattente per l’amore, fino al sacrificio rituale che la vede morire nel terzo film. Ma l’influenza di Ripley si estende anche a storie insospettabili. Nel primo Shrek, è su di lei, ed esplicitamente su Trinity, che si modella la principessa Fiona, tutt’altro che disposta a lasciarsi salvare dal principe o dall’avventuriero di turno. E c’è il sospetto che l’ombra della guerriera abbia reso possibile anche la trasformazione di Arwen Undómiel nel film tratto da Il signore degli anelli, dove l’amata di Aragorn entra in scena armata di spada e sostituisce l’elfo Glorfindel nel salvataggio di Frodo, a differenza di quanto avviene nel libro di Tolkien. Né, naturalmente, sarebbe stata concepibile la Maggie Fitzgerald di Million Dollar Baby, interpretata da Hilary Swank, e come lei coraggiosa, indomabile, protagonista in un territorio fino a quel momento indiscutibilmente maschile: ma anche custode, nella propria determinazione, dei segreti della vita e della morte, e caparbia nel voler decidere il proprio destino. Né, ovviamente, la Beatrix Kiddo raccontata da Quentin Tarantino in Kill Bill. È l’erede diretta di Ripley, colei che raccoglie il testimone e colei a cui, nonostante tutto, si riserva il destino migliore. Come Ripley, Beatrix posa i piedi su sabbie mai calpestate da donne, attraversa deserti, sfida l’impossibile. Come Ripley cerca vendetta e stana i suoi nemici uno dopo l’altro. Come Ripley è madre ed è per la propria figlia che ritiene perduta che si mette in viaggio. L’unica differenza fra le due donne è che la Sposa ha amato un uomo, e che quell’uomo è stato anzi il suo pigmalione, colui che, spingendola all’allenamento presso il maestro Pai Mei, la doterà di un’arma letale (la tecnica dell’esplosione del cuore con cinque colpi delle dita) con cui Beatrix lo ucciderà. Dopo aver appreso quel che c’era da sapere dal mondo maschile, dunque, la Sposa riprenderà il cammino insieme a sua figlia, come nella versione rovesciata e luminosa di La strada di Cormac McCarthy. Il secondo volume di Kill Bill esce nel 2004. Un anno dopo, una tranquilla signora americana pubblica un romanzo che si chiama Twilight: la protagonista femminile si chiama Bella Swan. È insicura, goffa e non desidera altro che un grande amore che la protegga. Lo troverà, si sposerà e avranno una bambina. Bisognerà attendere la trasposizione di Le cronache del ghiaccio e del fuoco di George R.R. Martin in Il Trono di Spade per avere un’altra eroina, oscura e terribile, come Daenerys Targaryen.

A volte le manca la forza
di far cadere una mosca in volo.
Wisława Szymborska, Sulla morte senza esagerare

Ma questo è dopo. Prima, ovvero negli anni intorno ad Alien e successivi, si ragiona sul corpo e sui mostri che crescono in noi, e che a volte dissolvono l’umano nell’animale. Mutare: gli orrori nazisti che trovano nuovi corpi nei Ragazzi venuti dal Brasile di Ira Levin. Gli scarafaggi umanoidi di Mimic. L’antropologo trasformato dalle bacche in mostro cannibale di Relic – L’evoluzione del terrore. La condanna per hybris di Seth Brundle in La mosca, che David Cronenberg dirige nel 1986, riprendendo una vecchia storia, L’esperimento del dottor K del 1958, tratta dal racconto, di un anno precedente, di George Langelaan. Basta una mosca nella capsula che sperimenta il teletrasporto, e Brundle, che la prova su stesso, non si accorge di lei (e di qui: peli neri sulla schiena, via le unghie, i denti, la pelle, saliva corrosiva, e via andare). Cronenberg dichiarò che Brundle “è molto più un Dr. Jekyll-Mr. Hyde che non un Dracula. È entrambi in un solo uomo”. Come tutti, probabilmente. Ma la mutazione del corpo prenderà altre vie: sempre Cronenberg affronta un argomento simile in Videodrome, dove la carne è contaminata stavolta dalla tecnologia, e in particolare dalla televisione e dall’esposizione alla violenza della medesima. Nel caso, la tv via cavo Civic tv, che trasmette video crudi e pornografici e il cui produttore, Max Renn, si imbatte in segnali video pirata che mostrano torture efferate, e peraltro mette in campo l’idea dell’upload digitale molto prima di Black Mirror e dei transumanisti: chi siamo, se non la nostra immagine? Nulla. Coloro che non si arrendono, i cittadini ribelli, vanno eliminati.

Loredana Lipperini (foto di Pasquale di Blasio)

Oggi, mentre annaspiamo nella velocità degli aggiornamenti tecnologici, dimentichiamo quel che l’horror e il fantastico sapevano. Non siamo che The Soft Machine, la macchina morbida, come diceva già all’inizio degli anni sessanta William Burroughs, e il meccanismo di controllo invade il corpo umano come uno spettro in cerca di dimora (ma non lo aveva detto già a fine ottocento Guy de Maupassant in L’Horla?). Oggi, mentre ci abituiamo a sostituire parti del nostro corpo e a dialogare con l’assistente di Google, dimentichiamo, e se ricordassimo sorrideremmo, precognizioni lontane come quella di Tetsuo: The Iron Man (1989), il film di Shin’ya Tsukamoto dove il protagonista è un auto-feticista che innesta componenti metallici nel proprio corpo e, investito e ferito, si trasforma in macchina. Due anni prima c’era stato RoboCop di Paul Verhoeven, distopia ambientata in una Detroit violenta dove si vagheggia un cyborg di pattuglia, e la morte di un poliziotto vecchio stile, Alex Murphy, fornisce l’occasione per costruirlo. Il corpo di Murphy è pressoché inutilizzabile ed è quindi sostituito da protesi meccaniche rivestite di titanio e kevlar, mentre il suo cervello, integro, è impiantato nel robot e collegato a un sistema informatico.

Dimentichiamo, anche, i manga e gli anime che ci hanno ricordato che quello dell’uomo meccanico è un vecchio sogno, e che gli alchimisti lo sapevano già: lo sottolinea Hiromu Arakawa in Fullmetal Alchemist (manga e anime dal 2001 al 2010), dove i fratelli alchimisti Edward e Alphonse Elric cercano la pietra filosofale per riottenere i loro corpi originari persi in una trasmutazione umana finita male.

E se è il cambiamento che temiamo, specie da adolescenti, Charles Burns, nel fumetto Black Hole, immagina una malattia a trasmissione sessuale, chiamata Bug, che deforma il corpo. In Raw di Julia Ducournau, film del 2016, si assiste invece alla storia di Justine, un’adolescente vegetariana e bullizzata, costretta a mangiare la carne come rito di iniziazione all’università. Quel boccone la conduce al cannibalismo. Esattamente come nel romanzo La vegetariana di Han Kang, dove l’orrore è sempre qualcosa che cresce al nostro interno: un figlio, un mostro o, in questo caso, carne morta. La protagonista si chiama Yeong-hye e da un giorno all’altro decide di non mangiare più carne né di vederne, laddove è possibile. “Perché?” le domandano, e si domandano il marito, i parenti, i conoscenti. “Ho fatto un sogno,” risponderà lei. Ma nessuno può capire. Proprio lei, cuoca provetta, il cui

piatto forte consisteva in fettine di manzo sottilissime insaporite con pepe nero e olio di sesamo, poi passate in una panatura abbondante di farina di riso colloso, come i dolci di riso o le frittelle, e immerse nel brodo bollente dello shabu shabu. Preparava un bibimbap con germogli di soia, manzo macinato e riso messo precedentemente in ammollo e poi saltato in padella nell’olio di sesamo. Faceva anche una densa zuppa di pollo e anatra con patate tagliate a pezzi grossi, e un brodo speziato stracolmo di vongole e cozze tenerissime, di cui ero capace di divorare con piacere fino a tre piatti di seguito.

Giovanni Arduino (foto di Alberto Cristofari / Contrasto)

Yeong-hye crede che la strada da percorrere sia quella di trasformarsi in vegetale: è una forma di resistenza alla vita stessa. Mutare per non morire di paura.

L’ossessione per il cibo è una delle paure dei nostri tempi. Controllo, peso, leggo le etichette. Eppure so che arriverà il giorno in cui dal più profondo del mio essere qualcosa mi avvertirà: non va, non va, non va.

Non va, diceva la madre della parte femminile nel primo dei suoi ultimi venti giorni. Non va, diceva l’amico che per cinque anni ha sopportato chemioterapie e resezioni e operazioni e strozzature del fegato “come un’oca”, diceva, e poi in quel dicembre ha capito che no, non va, e “sta arrivando”, diceva.

Non va. E dunque non mangio o mi faccio esplodere di cibo, perché altri si nutrano. Nel racconto Zie di Karin Tidbeck (2011) le zie sono tre, vivono su un divano e mangiano, mangiano, mangiano fino a scoppiare, generando così altre zie accudite delle nipoti. E già nel 1967 Anne Richter sceglie di raccontare una donna che si trasforma in pianta, una scelta compatibile proprio perché non umana (Il sonno delle piante).

E poi ci sono le madri. Un tempo, come in Rosemary’s Baby di Ira Levin, erano lo strumento per il passaggio, mera utilità, e Levin ebbe l’intuito di raccontare la gravidanza del figlio di Satana con gli occhi di una casalinga degli anni sessanta. In altri casi (Il presagio, Il mai nato) non sono che elementi di contorno. Cosa avverrebbe se diventassero protagoniste, invece di narrare in romanzi mainstream e autofiction le fatiche delle gravidanze e la depressione post partum?

Ma dal momento che l’horror e il fantastico sono in larga parte maschili, ecco che le madri, e pure i padri, si volatilizzano. In un numero incalcolabile di distopie young adult gli adulti spariscono a causa di morbi misteriosi che risparmiano solo i giovani fino ai diciotto anni, ammesso che non vengano utilizzati, sempre dagli adulti, come donatori di organi (Unwind. La divisione, di Neal Shusterman, e prima di lui Non lasciarmi di Kazuo Ishiguro). The Enemy di Charlie Higson narra di un’epidemia che uccide uomini e donne, e chi non muore viene ridotto a uno zombi. Solo i ragazzi al di sotto dei quattordici anni non ne sono colpiti, salvo doversi difendere da non morti affamati che fino a poco prima erano padri e madri traboccanti di affetto. Qualcosa di molto simile avviene in Anna di Niccolò Ammaniti e ancora prima in The Young World di Chris Weitz (sceneggiatore e regista del secondo Twilight), dove i giovani newyorkesi attendono la morte dopo la malattia (febbre, vomito, delirio) che uccide quando si raggiunge la maturità fisica. In Between, serie televisiva del 2015, si muore a ventidue anni.

Il corpo, prima di mutare, viene distrutto. Meglio non crescere, in un mondo senza prospettive. Ma se questo è Dioniso, se questo è il caos, chi è Prometeo? Chi cerca, ancora una volta, di superare il limite?

© 2021 by Loredana Lipperini and Giovanni Arduino Published by arrangement with Agenzia Santachiara 
© 2021 Giunti Editore S.p.A. / Bompiani

(continua in libreria…)

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