“Pur con le migliori intenzioni, la poesia non può che fallire davanti alla Poesia. Questa impossibilità quintessenziale è, paradossalmente, alla base di tutte le critiche che vengono mosse alla lirica, così come delle sue difese…”. La scrittrice Giuliana Altamura ha letto per ilLibraio.it un saggio di grande interesse, “Odiare la poesia” di Ben Lerner

Tutti odiano la poesia. A intervalli regolari, fioriscono articoli che ne dichiarano la morte (accade per il romanzo, figurarsi!), così come apologie in sua difesa. È più facile odiarla che definire cos’è, sottolinea Ben Lerner nel suo saggio Odiare la poesia, pubblicato da poco in Italia per Sellerio con traduzione di Martina Testa.

Ben Lerner è un poeta, non può fare a meno di essere un poeta neppure nella sua opera in prosa, e tuttavia non riesce a vivere come una contraddizione il legame inestricabile che unisce poesia e odio per la poesia, quasi fosse uno scotto da pagare per l’incommensurabilità dell’impresa, una conseguenza dell’impossibilità estrema connaturata all’esistenza stessa di quest’arte.

Ben Lerner odiare la poesia
Alle origini della tradizione lirica anglosassone, troviamo il leggendario Caedmon, un pastore analfabeta che Dio rese poeta in sogno. Al risveglio, Caedmon cantò per la sua comunità, ma i versi non poterono mai essere all’altezza di quelli che gli erano stati rivelati da un principio trascendente nella notte della coscienza, dove si agitano gli impulsi e il linguaggio si fa figura. Nel passaggio alla “poesia reale”, scrive Lerner, “il canto dell’infinito viene compromesso dalla finitezza dei suoi termini”.

Pur con le migliori intenzioni, la poesia non può che fallire davanti alla Poesia. Questa impossibilità quintessenziale è, paradossalmente, alla base di tutte le critiche che vengono mosse alla lirica, così come delle sue difese. Platone avrebbe scacciato i poeti dalla Repubblica ideale perché spacciavano per verità i propri fantasmi, incapaci di esprimere nei loro versi la grandezza delle Idee: esiste forse un modo migliore di questo per difendere la Poesia?

“La poesia più magnifica che sia mai stata comunicata al mondo è forse solo una fievole ombra della concezione originaria del poeta”, scriveva Shelley in pieno Romanticismo, da postilla a un elogio appassionato. Eppure il punto è lo stesso: fantasmi, fievoli ombre – un totale fallimento.

“Ecco il problema fatale della poesia: le poesie”, afferma Lerner in tono provocatorio, ma fino a un certo punto. Quella che sembra proporci in questo prezioso libricino è una sorta di via negativa all’apprezzamento della poesia, che passa per necessità attraverso la comprensione dei suoi limiti costitutivi, e i limiti – si sa – sono confini, ma anche soglie.

Attraverso l’analisi delle poesie di William Topaz McGonagall (secondo la definizione di Wikipedia: “il peggior poeta della storia”), la divina Emily Dickinson, Walt Whitman (già celebrato a più riprese nell’acclamato romanzo Nel mondo a venire) e l’autrice afro-americana Claudia Rankine, Lerner mette in risalto quella che lui stesso definisce come una “persistente richiesta” che mai potrà essere esaudita e che ha a che fare col collasso della potenzialità virtuale di una Poesia che tutto contiene – passato, presente e futuro – in una poesia determinata, individuale, scritta, e per questo limitata nelle e dalle sue stesse parole, ma anche umana.

Nel migliore dei casi, se si tratta di una bella poesia, sarà pronta a sfidare se’ stessa, mentre nel peggiore renderà ancora più evidente – per via negativa, appunto – tutto ciò che manca e che continuiamo, dai tempi di Platone, a domandarle.

“La storia è illuminante perché contribuisce a spiegare la persistente sia pur mutevole sensazione che le poesie della nostra epoca non siano all’altezza del loro compito: che la nostra epoca sia il 380 c. C., o il 731, o il 1579, o il 1819 o il 2016”. Lerner è costretto ad ammettere un punto debole “nella storia che sta raccontando”, ossia che “non ha molto da dire sulle belle poesie”, e in effetti parrebbe quasi che una brutta poesia possa risultare più rivelativa di una bella, se in fin dei conti non vi è altro da esprimere che il proprio fallimento. Per fortuna non è così, e se è vero che una poesia non potrà mai trascendere del tutto se’ stessa, è anche vero che la sua capacità spaziale di condensare il senso nell’”esperienza di una forma” può aprire un varco nella trama del mondo e restituire una piccola, piccolissima parte dell’universalità del dettato di Dio in sogno. E questo, una brutta poesia non lo sa fare.

Nelle ultime pagine del libro, d’altra parte, Lerner associa la lirica a diversi momenti del quotidiano in cui si ha la percezione che ogni possibilità sia non solo disponibile, ma che appartenga a una struttura più profonda della realtà, dove anche le assenze si fanno presenze: non c’è modo migliore, che l’autore ne sia consapevole o meno, di dire qualcosa sulle belle poesie.

“L’unica cosa che chiedo a quanti odiano la poesia”, conclude, “è di sforzarsi di rendere il loro disprezzo perfetto”. Solo in questa maniera, a sua volta, lo stesso disprezzo potrà trasformarsi in verso.

L’AUTRICE – Giuliana Altamura, è nata a Bari nel 1984 e vive tra Milano e Parigi. Ha esordito per Marsilio nel 2014 con il romanzo Corpi di Gloria (Premio Rapallo Carige Opera Prima). Nel 2015 un suo racconto è stato pubblicato nell’antologia Quello che hai amato, a cura di Violetta Bellocchio (Utet). È in libreria con il suo ultimo romanzo edito da Marsilio: L’orizzonte della scomparsa.

L'orizzonte della scomparsa

 

 

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