“Est”, il nuovo romanzo di Gianluigi Ricuperati, è ispirato alla storia vera di Dau, il film/installazione realizzato dal cineasta russo Ilya Khrzhanovsky, uno dei progetti di videoarte e filmografia più discussi…

Gianluigi Ricuperati esordisce nel romanzo con Il mio impero è nell’aria (minimum fax, 2011), a cui seguono La produzione di meraviglia (Mondadori, 2013) e La scomparsa di me (Feltrinelli, 2017). Il suo nuovo libro, Est, esce per Tunué, ed è ispirato alla storia vera di Dau, il film/installazione realizzato dal cineasta russo Ilya Khrzhanovsky, uno dei progetti di video arte e filmografia più discussi.

In una cupa serata londinese, un fotografo di moda dalla vita emotiva divisa viene invitato al numero 99 di Piccadilly, per un appuntamento di lavoro, a mezzanotte. Varcata la soglia, capisce di essere in un cosmo separato, dove ogni dettaglio appartiene a una realtà distante dal presente e dalla sua vita: quella dell’epoca sovietica. Il padrone dell’edificio, Igor, gli rivela che si trova nella casa di produzione di un gigantesco film girato nei tre anni precedenti e incentrato sulla vita del Premio Nobel Vladimir Ivanovich Vernadskji, noto per aver retto le sorti dell’Istituto di Fisica più avanzato del mondo, ma anche per la sua visione eterodossa del matrimonio.

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Igor, che è regista e produttore del film, ha ricostruito fisicamente l’Istituto, incluso il personale, che è tenuto a vivere veramente al suo interno, e propone al fotografo di diventare l’occhio ufficiale dell’impresa.

Così, per diverse settimane, l’uomo vola da Milano a Londra, portando dentro di sé l’affetto incrollabile per la figlia, l’amara consapevolezza di un matrimonio coscienzioso e di qualità, ma completamente estraneo all’amore, e il desiderio di trasformare, finalmente, le proprie fotografie in un’opera d’arte.

Tra fascinazione, inquietudine, e un attaccamento a volte goffo, a volte disperato, alla vita che è sempre stata, e che non può più essere, l’innamoramento per un’enigmatica ragazza che è tra le figuranti della messinscena, insieme alle doppie vite di Igor e del protagonista del film, portano l’uomo a cambiare la propria vita per coincidere, finalmente, con se stesso.

Su ilLibraio.it, per gentile concessione della casa editrice, proponiamo un estratto da romanzo:

“Ecco Igor”, disse Sonja. Eravamo al terzo piano dell’edificio, una sala che forse qualche tempo prima era stata il salone di rappresentanza della nobile famiglia che viveva qui. Anche adesso sembrava rappresentare qualcosa, e solo dopo le visite successive avrei capito che era il simbolo dell’intero pianeta di Piccadilly 99. Se l’edificio fosse stato un volume prezioso, quel locale sarebbe stato il frontespizio: col tempo avrei ritrovato in ogni dettaglio un richiamo all’insieme. Ecco ciò che ricordo di aver catturato con quella prima occhiata rapida e distratta dai doveri dell’ospitalità – il presentarsi, il gioioso divertimento di Chung-Kuo nell’introdurre reciprocamente persone che non si erano mai viste prima –: dappertutto libri antichi e moderni, tappeti, tavoli e sedie, poltrone e divani, un armadio pieno di bottiglie classificate come in una farmacia, stendardi sovietici di vario genere e forma. E c’era un uomo appeso al soffitto. Impiccato. “L’ospite di mezzanotte!” fece Igor, che aveva l’aria del padrone di casa ma anche quella di un curiosissimo felino appena arrivato a una nuova tavola appena abbandonata, piena di succosi resti. “Aspettavamo te per fare un giro con Chung-Kuo. Ci sono molte cose interessanti, qui. Nel frattempo Sonja darà ordine di far portare un borsch e altre cose da mangiare. Hai fame?”

Risposi che non avevo fame. Ma che mi faceva piacere assaggiare le prelibatezze russe che stavano preparando per noi. Oltre a me e Chung-Kuo c’era anche una donna con la spilla di un delfino sulla camicetta, due ragazzi che si erano presentati come assistenti di Igor e Maxine Schackleton, la ragazza che lavorava per Chung-Kuo alla notte (il suo brand doveva funzionare 24 ore su 24, perciò aveva assoldato persone che coprivano tutte le ore del giorno). Maxine assomigliava a una versione colta e raffinata di Marilyn Manson: trucco, acconciatura barocca, stile crossdresser. Il papà del nonno di Maxine era stato il leggendario capitano Shackleton, protagonista di una delle più straordinarie avventure dell’esplorazione antartica. Nel 1915, mentre in Europa c’era la Grande Guerra, Shackleton si arenò all’Isola Elefante, di fronte alla Georgia Australe, insieme al selezionato gruppo di esploratori e marinai con i quali avrebbe dovuto conquistare il Polo Sud. L’unico modo per salvare i membri dell’equipaggio prima che il temibile inverno li bloccasse per sempre era abbandonarli con una lancia e far ritorno alla costa sudamericana per poi tornare a prenderli una volta che i ghiacci si fossero sciolti. Insieme a un piccolo gruppo di eroi salpò verso il continente. Dopo otto mesi, durante i quali i superstiti esaurirono le scorte di cibo e furono costretti a uccidere e mangiare i cani da slitta, la nave di Shackleton riapparve all’orizzonte, mettendo in salvo tutti i componenti della missione. La sua erede, esattamente un secolo dopo,  ora mi precedeva nella fila indiana che Igor stava guidando per presentare a Chung-Kuo e ai suoi ospiti i misteri e le meraviglie di Piccadilly 99. Maxine aveva occhi svegli (dormiva di giorno) e un modo delicato, precisissimo, di parlare: quasi un sussurro, per non disturbare le frasi del capo comitiva. “È una specie di performance”, mi disse mentre attraversavamo un’ampia camera piena di manichini e abiti di scena accatastati. “Ma in realtà questa è la sede del montaggio del film di Igor. Anche se chiamarlo film forse non va bene. Da quel che ho capito qui stanno montando le centinaia di ore di girato di un enorme produzione che hanno iniziato in Ucraina qualche anno fa, e che dovrebbe essere pronta fra qualche mese: una specie di serie tv, ma anche una serie di film autonomi, e dei documentari. Ma è tutto vero. Cioè, non c’è stata nessuna sceneggiatura. Dicono che abbiano ricostruito tutto così com’era negli anni Trenta in Unione Sovietica, e poi buttato giù tutto alla fine delle riprese. Dicono anche che le persone abbiano vissuto per tre anni con l’obbligo di non dire a nessuno di ciò che succedeva sul set, e che non dovevano mai uscire dalla parte. Se volevano cercare la conferma a una notizia su Google, dicevano ‘dobbiamo consultare la Pravda’.”

Su queste parole, più confuso e sospeso di prima, entrammo in una piccola cameretta sulle cui pareti spiccavano decine di appendiabiti ai quali erano elegantemente adagiate delle maschere che riproducevano alla perfezione facce umane, di un realismo che dava le vertigini. “Indossane una”, disse Igor rivolgendosi a Chung-Kuo, che con il suo  spirito giocoso non aspettava altro: nel giro di pochi secondi il principe della moda del Ventunesimo Secolo si trasformò in un cittadino sovietico del Ventesimo Secolo. “Ecco il protagonista di tutto, il grande Vladimir Ivanovich Vernadskji”, fece Igor disegnando un semicerchio cerimonioso nell’aria tenuta sotto scacco dalle luci al neon. “Uno dei più grandi scienziati della gloriosa epopea della ricerca sovietica, morto a 87 anni poco prima che l’Urss vincesse la guerra, nel 1945.”

Igor parlava con un tono e uno sguardo inclinati, come su una distanza obliqua capace di tenere insieme solennità orgoglio ironia e follia conclamata. “Ecco perché il nostro progetto si chiamerà Ver. Forse il nostro amico italiano tutto preso a fotografare con l’I–phone saprà illuminarci sulla radice etimologica della parola latina ‘veritas’, che significa ‘truth’. No?”

Farfugliai qualcosa. E mentre pensavo con ansia a tutte le volte che su un vocabolario latino avevo incrociato la parola ‘verum’, senza tirar fuori nulla di nulla dal cappello istantaneo della conversazione, venne in mio soccorso un libro che avevo letto poco prima di partire per Londra, sullo scienziato James Lovelock, geologo e inventore noto per aver perfezionato il concetto di “sistema terrestre” con la sua “ipotesi Gaia”, secondo cui il nostro pianeta e la vita che si è sviluppata su di esso sono intensamente legati da un insieme di reazioni e relazioni incrociate. Il grande antecedente di questa teoria era proprio Vladimir Vernadskji. Ogni tanto la mente reagisce in modo encomiabile  all’ambiente – persino la mia, così poco abituata alle idee ma fissata con quel che si vede. Ecco che in quel doppio millesimo di secondo che ci può avvincere o allontanare da una nuova amicizia riuscii a processare tutte quelle dispersive informazioni in una risposta: “Non so la radice di ‘veritas’, ma so che Vernadskji ci ha regalato la parola ‘biosfera’, e quindi sia lode al compagno Vernadskji.”

Alzai un bicchiere immaginario. Ci fu una risata preceduta da una breve parentesi di attenzione per quel che dicevo. La teoria della bella figura e dell’attenzione. La teoria del carisma momentaneo e della seduzione. La storia di come si incontrano gli occhi e le storie degli umani. L’accordo. Una piccola porta si era aperta. Non sapevo ancora con chi ero, non avevo ancora decifrato se si trattasse di uno scherzo o di un sogno ben orchestrato. Ma era qualcosa. E oltre agli altri, c’ero io. E Igor. Nel volgere di un minuto era cominciato qualcosa che non si poteva negare.

(continua in libreria…)

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