“Definire guerra gli attacchi terroristici di Parigi è un errore clamoroso e deviante”. Gianni Bonvicini, esperto di questioni europee e di politica estera, intervistato da ilLibraio.it mette in guardia da definizioni che portano con sé un fortissimo peso politico, e aiuta a capire l’intricato scacchiere internazionale e lo scenario che si va delineando. “In Iraq e in Siria stiamo certamente assistendo a una guerra civile interna. Diverso invece il confronto tra potenze esterne al mediorente e l’Isis. Lo Stato Islamico fa di tutto affinché l’Occidente cada in questa trappola definitoria. Ma è un errore…”. Grandi alleanze, tentativi di coalizione, decisioni dei singoli stati, volontà di intervenire, prudenza: come combattere lo Stato Islamico? Ecco le sue proposte…

“Definire guerra gli attacchi terroristici di Parigi è un errore clamoroso e deviante”. Gianni Bonvicini, esperto di questioni europee e di politica estera, attualmente vicepresidente vicario dell’Istituto Affari Internazionali (IAI ) e professore all’Università di Roma, mette in guardia da definizioni che potano con sé un fortissimo peso politico. “In Iraq e in Siria stiamo certamente assistendo a una guerra civile interna. Diverso invece il confronto tra potenze esterne al mediorente e l’Isis. Lo Stato Islamico fa di tutto affinché l’Occidente cada in questa trappola definitoria. Ma è un errore clamoroso”.

Membro del Gruppo strategico di riflessione sulle politiche e gli affari europei del sottosegretario Sandro Gozi, il professor Bonvicini, intervistato da ilLibraio.it, aiuta a capire l’intricato scacchiere internazionale e lo scenario che si va delineando nel dopo Parigi. Gli attentati del 13 novembre scorso hanno mostrato un’Europa e un Occidente che faticano a fissare strategie e decisioni comuni. Dietro la bandiera del “nemico comune”, il fronte antiterrorismo appare molto fragile.

Professor Bonvicini, pochi giorni dopo gli attentati di Parigi, Hollande ha dichiarato lo stato di guerra. Una guerra evocata anche dal segretario della Difesa americano, Ashton Carter.
“È evidente come in Francia ci sia stato un problema politico interno che spiega questa reazione sopra le righe, attenta prima di tutto alla propria opinione pubblica. Teniamo presente, comunque, che Hollande ha escluso interventi via terra contro l’Isis. Non ha nessuna intenzione di ripercorre gli errori americani del passato. Certo, accettare una simile definizione costringe a misure che mettono a rischio l’esistenza stessa delle nostre regole democratiche di libertà e di convivenza civile. Lo stato d’emergenza in Francia è una diretta conseguenza di una cattiva definizione di atti di aggressione armata che non hanno, però, niente a che vedere con la guerra”.


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Il Pentagono ha recentemente rivelato di aver chiesto a 40 paesi alleati un maggior contributo alla lotta contro l’Isis. Può, dopo Parigi, nascere una coalizione coesa ed efficace?
“Sono personalmente molto pessimista. Ognuno sta interpretando la lotta all’Isis a proprio modo. I Russi hanno un loro interesse nel reggere il regime di Assad. I Turchi, all’opposto, vogliono abbatterlo e acquisire piena titolarità su quello che rimarrà della Siria. Gli stati della regione, interlocutori indispensabili, sono in costante lotta tra loro: Arabia saudita, Stati del Golfo e Turchia sono preoccupati dalla penetrazione dell’Iran, soprattutto dopo l’accordo sul nucleare. Una strategia comune su come combattere l’Isis non c’è”.

Parigi, richiamando l’art.42.7, ha fatto appello più all’Unione Europea che alla Nato. È possibile fare a meno degli Stati Uniti o della Russia, irritata dal recente ingresso nella Nato del Montenegro?
“No, non credo. Gli americani non sono perfettamente in linea con le aperture fatte dalla Francia alla Russia. Ma senza Stati Uniti la lotta all’Isis non si vince. E gli americani stessi non possono fare a meno dei russi. In questo vedo una contraddizione nella politica di Obama. L’intesa Usa-Russia è fallita in gran parte per colpa di Putin ma anche per una mancanza di rinnovamento della politica americana in Europa. L’atteggiamento della Nato, che si oppone giustamente alle violazioni della Russia nell’est europeo, è al tempo stesso controproducente nella prospettiva di un’alleanza necessaria tra Stati Uniti e Russia. C’è, a mio avviso, un problema di feeling personale tra Obama e Putin. In Europa, Obama sta facendo una politica di tipo tradizionale, lasciandosi guidare dalla Nato, che ha degli interessi interni fortissimi proprio nel confronto con la Russia. Un modo di agire che non risponde agli interessi reali degli Stati Uniti in Europa, che sono quelli di un accordo con Mosca. Un accordo che non siamo stati lontani da raggiungere e che forse si potrebbe ancora raggiungere”.


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Quanto rischia la politica estera americana di essere condizionata dalle imminenti elezioni presidenziali 2016, costringendo Obama ad assecondare l’opinione pubblica?
“Obama è alla fine del suo mandato ed è particolarmente libero di agire indipendentemente dagli interessi del suo partito. Il disimpegno fa parte della sua linea politica fin dall’inizio e in quanto alla politica in medioriente ha mantenuto una straordinaria coerenza. E’ anche riuscito, contro gli interessi di gran parte dei repubblicani, di Israele e contro l’opinione pubblica, a portare fino in fondo l’accordo sul nucleare con l’Iran, per nulla scontato”.

Dopo Parigi, la Francia ha reagito più in nome dell’identità nazionale che in chiave europea. Può l’Europa riuscire a darsi una politica di sicurezza e di difesa comuni o è ormai svuotata di significato?
“Siamo di fronte ad una contraddizione esistenziale. Le recenti sfide globali – finanziaria, migratoria, terrorismo, clima – hanno innescato risposte prevalentemente nazionali. C’è un indebolimento crescente del sistema multilaterale e un ritorno al sistema post westfaliano di stati sovrani. Il ricorso all’art.42.7 del trattato di Lisbona ne è un esempio. L’articolo da utilizzare sarebbe stato il 222, che dà un compito particolare alle istituzione dell’Ue per andare in soccorso ad un paese colpito da atti terroristici. Si è scelto, invece, il 42.7, che lascia ciascun paese libero di decidere autonomamente le modalità con cui agire. Non implica l’intervento della Commissione, né dell’Alto rappresentante, né del Parlamento europeo. Il 42.7 parlerebbe per altro di aggressione armata e non di atti terroristici. Stesso discorso vale per l’Onu: dare più potere all’Assemblea Generale, alle coalizioni regionali di Stati resta un’utopia”.

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L’Italia si è mossa finora all’insegna della prudenza. Che cosa ne pensa dell’atteggiamento del governo Renzi?
“L’Italia fa benissimo a essere prudente. Ma dovrebbe spingere molto di più i propri partner per chiarire quali siano gli obiettivi strategici di un intervento dell’Ue, delle Nazioni Unite o della coalizione. L’Italia parla di intelligence sharing ed è già impegnatissima in medioriente, a cominicare dal Libano. Operiamo già con i tornado, senza bombardare, non sulla Siria ma sull’Iraq. Deve, però, fare anche proposte: se la Siria sarà destinata a dividersi in sotto province, in piccoli stati, se deve diventare qualcosa di federale, quali sono le forze politiche a cui affidarsi, qual è l’alternativa ad Assad. Bisogna riprendere il discorso di Vienna. In altre parole, deve spingere di più sulla definizione di una strategia politica trasparente e chiara in Iraq e in Siria”.

E in Libia.
“Esatto. Si tende a mantenere separato quello che sta avvenendo in Siria e in Iraq da quello che sta succedendo in Libia. Ed è un errore. Non solo la Libia, anche la Nigeria e tutta questa enorme fascia che dalla Tunisia va fino al Pakistan e all’Indonesia e che deve essere affrontata nel suo insieme, evitando una parcellizzazione episodio per episodio”.

Quanto è importante la Turchia per lo scacchiere internazionale?
“E’ importantissima. Per la sua posizione geostrategica, prima di tutto. Gran parte dei problemi di oggi nascono dalla mancanza di trasparenza della sua politica estera. Temibili sono poi le conseguenze negative che può avere l’arroganza del potere che Erdogan sta esercitando all’interno, in tutta la regione e nei rapporti con la Russia. Se continua così, può essere un elemento drammaticamente negativo, ma tuttavia rimane essenziale per ogni futura soluzione”.


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È necessaria, dunque, una politica improntata alla realpolitik, che rinunci almeno in parte ai valori morali per un obiettivo comune. Ma fino a che punto?
“Purtroppo, per quanto stiamo vedendo, la realpolitik è prevalsa in modo quasi indecente: in alcuni paesi in modo particolare, come in Germania. Si ricordi la visita della cancelliera ad Erdogan qualche giorno prima delle elezioni. È una inversione di rotta clamorosa, da parte della Germania e della stessa Francia. Purtroppo la realpolitik ha prevalso proprio per il timore che gli europei hanno dell’immigrazione, la vera arma della Turchia nei confronti dell’Unione Europea”.

A proposito di immigrazione: l’Ue ha stanziato 3 miliardi da dare alla Turchia. Il flusso migratorio lungo la rotta balcanica fa così paura?
“C’è un errore concettuale. La rotta balcanica risponde alle stesse ragioni di quella mediterranea. Noi abbiamo protestato molto quando l’immigrazione veniva dalla Libia; e la Merkel si è interessata al flusso migratorio solo quando si è aperta la rotta balcanica. Ora rischiamo di commettere lo stesso errore. L’Italia non ha spinto per far parte dei recenti gruppi organizzati intorno alla Germania per discutere proprio della rotta balcanica. Quasi quella rotta non ci interessasse. Avremmo dovuto esserci e affrontare il tema migrazione globalmente, come Unione Europea. Questo non sta avvenendo; un’altra risposta non europea a una crisi che è europea”.

Per concludere: grandi alleanze, tentativi di coalizione, decisioni dei singoli stati, volontà di intervenire, prudenza. Alla fine, però, come combattere lo Stato Islamico?
“L’unica vera soluzione efficace resta quella di combattere l’Isis sul terreno. Dall’alto, i bombardamenti finiscono per colpire la popolazione civile con il rischio di radicalizzare la lotta e di esportarla fuori dalla regione. Si può vincere solo sul terreno. Ma dovrebbe essere un compito degli sciiti e, soprattutto, dei sunniti. Questa è una guerra intersunnita e sarà vinta solo se gli stati dell’area decideranno di coalizzarsi e di portare avanti un’operazione militare sul terreno”.

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