Da Roland Barthes a Vladimir Nabokov, da Albert Camus a Franz Kafka, il libro “L’arte dell’attesa” dell’autrice tedesca Andrea Köhler esplora l’attesa come condizione esistenziale – Su ilLibraio.it un capitolo

Se Kafka sosteneva che la sua vita non fosse altro che “un’attesa prima della nascita”, Beckett ha fatto dell’attesa il soggetto principale della sua opera Aspettando Godot; allo stesso modo, la giornalista tedesca Andrea Köhler ha dedicato all’attesa, in quanto condizione della vita quotidiana, un saggioL’arte dell’attesa (Add editore, traduzione di Daniela Idra).

In un viaggio attraverso alcuni dei più importanti scrittori e filosofi di tutti i tempi, da Roland Barthes a Vladimir Nabokov, da Albert Camus a Peter Handke, Andrea Köhler esplora il significato dell’attesa: aspettiamo l’autobus, la persona giusta, l’offerta di lavoro ideale, l’esito di un esame, ma anche solo una telefonata, al punto che, secondo l’autrice, la nostra esistenza si compone di piccole e grandi attese, nella speranza che accada qualcosa che potrebbe non accadere mai, o semplicemente non accadere come noi speriamo che accada.

È una condizione perenne di aspettative e speranze che, secondo l’autrice, portano in se stesse un valore intrinseco, al di là della loro realizzazione. Non è poi così diverso da quello che scriveva Leopardi ne Il sabato del villaggio, quando descriveva il giorno prima della festa come momento di massima felicità, più importante della festa stessa.

l'arte dell'attesa Andrea Köhler Add

Per gentile concessione dell’editore, sul ilLibraio.it pubblichiamo un capitolo:

Il silenzio delle sirene

Quando il telefono non suonò,
capii subito che eri tu.
Dorothy Parker

Prima dell’invenzione del telefono portatile, l’attesa di una chiamata era l’immagine simbolo dell’amore – quasi sempre dell’amore non corrisposto. Sin dagli esordi della telecomunicazione, la letteratura ha fatto suo questo motivo. L’attesa costituisce infatti l’immaginario dell’amore, e il desiderio è l’essenza dell’immaginazione. Dall’atto unico di Jean Cocteau La voce umana, passando per il racconto Die Sirene di Dieter Wellershoff, fino ad arrivare al romanzo Vox di Nicholson Baker, il moderno Ulisse è legato a un palo del telefono, in balìa di quel «canto triste, possente» che già Kafka in sogno sentiva risuonare nel ricevitore.

Neanche il cellulare ci ha liberati dall’impotenza dell’attesa. Certo, chi aspetta una telefonata non è più costretto a girare intorno all’apparecchio inscenando insensati rituali di scongiuro. Tuttavia, chi cerca trepidante di sentire il segnale che non arriva dalla tasca somiglia comunque a un cavallo da circo cui viene imposto di girare in tondo. È soggetto a quell’incantesimo che, nell’omonima parabola, Kafka definiva «il silenzio delle sirene».

Perché le sirene, che con il loro canto seducente mandavano in rovina i primi viaggiatori in Paesi lontani, «possiedono un’arma ancora più temibile del canto, cioè il loro silenzio». Ora, quando aspettiamo una chiamata, condizione che oscilla fra passività e azione, siamo in qualche modo nelle mani dell’altro. Si può fare qualcosa per mitigare la tensione, per frapporre al silenzio fluttuanti ponti di parole. Se nessuno ti parla, cominci a parlare con te stesso. Già da bambini pratichiamo un tipo di soliloquio che si affida alla virtù della magia: più la situazione è cupa, più ardenti saranno le invocazioni e più grande la certezza che i nostri appelli vengano ascoltati. Più tardi si prosegue con la forma, sempre un po’ penosa, della richiesta d’aiuto rivolta verso l’alto. Entriamo di nuovo in una sorta di relazione magica con il mondo: dall’attesa si arriva alla supplica, e poi alla litania. «Ti prego, mio Dio», continua a implorare il bambino che è in noi, «metti fine a questa attesa!».

Alla sopportazione contrapponiamo reazioni infantili, ed è forse per questo che spesso diventiamo così puerili mentre aspettiamo. Nel racconto breve La telefonata, la scrittrice americana Dorothy Parker ha tradotto questo tema, oscillante fra comico e tragico, nel classico monologo davanti al telefono, che consiste in un gioco di variazioni su quest’unica frase: «Ti prego, Dio, fa che chiami adesso».

Nel dramma dell’attesa il telefono rimane l’accessorio di scena più richiesto perché in fondo è ancora l’unico strumento della tecnica che supera le distanze e dà l’impressione della presenza. Ci lascia percepire il respiro e la voce con una grande vicinanza fisica, ed è il mezzo che più di tutti ci offre l’illusione di non essere stati abbandonati. Il telefono è lo strumento di un’intimità che colma ogni distanza. Come il celebre rocchetto di filo di Freud, aiuta a compensare l’assenza della madre, la telecomunicazione è una sorta di cordone ombelicale fatto apposta per negare la separazione. Il suo presupposto è la presenza in assenza, la sua caratteristica principale l’impazienza. Ecco perché persino il narratore della Recherche di Proust non riusciva a far altro che reclamare, se non si prendeva subito la linea.

Oggi, chi cerchi di presentare simili reclami si trova a dover rimanere ancora una volta in attesa; per prima cosa, la compagnia telefonica invita: «Si prega di attendere». Ma chi aspetta viene sempre intimorito da malefiche superstizioni: la chiamata non arriva perché sto aspettando. La telefonata arriverà appena lascerò la stanza (oppure, per dirla in modo più attuale: quando sarò in una zona dove non c’è campo). Nel volume di aforismi L’attesa, l’oblio Maurice Blanchot parla dell’«attesa riempita dall’attesa, riempita-delusa dall’attesa». Il che forse vuol dire che l’attesa impartisce lezioni tanto alla nostra disperazione quanto alla nostra speranza. In fondo chi aspetta recita sempre lo stesso ritornello: rimandare non vuol dire rinunciare.

(Continua in libreria…)

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