Su ilLibraio.it l’intervento del direttore editoriale di Neri Pozza, Giuseppe Russo, che parla dei 70 anni della casa editrice, guardando al futuro: “L’avvento dei colossi elettronici generalisti come Amazon sta profondamente mutando l’editoria tradizionale. Appare ormai inutile sfidare tali colossi sul terreno della quantità e della indifferenziazione della merce-libro e, addirittura, della merce in generale…”

«Neri Pozza, 70 anni non sono vani»: così Elisabetta Sgarbi ha deciso di intitolare la serata che la  sua Milanesiana ha voluto generosamente dedicare al 70° anniversario della fondazione della Neri Pozza, in programma al Teatro Parenti di Milano alle ore 21,00  di venerdì 1 luglio, con Matthew Thomas, Ralf Rothmann, Sandra Petrignani, Pierluigi Vercesi e chi scrive. Il titolo intende palesemente indicare che gli anni trascorsi da quel lontano 1946, in cui Neri Pozza fondò a Venezia la sua casa editrice, non sono trascorsi invano, poiché la sua «creatura» è viva e vegeta, come si suole dire, e continua a brillare nel firmamento editoriale italiano. La Milanesiana è, tuttavia, dedicata quest’anno al tema della «vanità», inteso nell’ampio spettro di significati che la parola racchiude, in primo luogo l’insensatezza di tutte le cose che  –  l’Ecclesiaste insegna  –  caratterizza ogni autentica esperienza «esistenziale» e, in secondo luogo, il compiacimento di sé che distingue ogni vera avventura artistica e intellettuale.

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Ora, la «vanità» intesa in questa ambivalenza di significati caratterizza l’origine stessa, lo sviluppo e la storia della Neri Pozza.  Il 4 aprile del 1956, in una lettera a Goffredo Parise in cui rimprovera allo scrittore vicentino di aver smarrito, nel suo ultimo racconto Il fidanzamento, l’energia poetica della sua opera prima Il ragazzo morto e le comete, Neri Pozza scrive: «Non ti dolere di questo parere negativo, io sono un vecchio provinciale con idee estremamente chiare anche se sbagliate (per te). Saranno idee d’arte e di poesia, che fanno pochi soldi, ma sono le sole capaci di sedurmi e interessarmi. Il resto, per me, è buio e vanità». Questa brutale dichiarazione di intenti, che mette da una parte l’arte e la poesia e dall’altra il buio e la vanità, l’insensatezza della semplice vita, è stata davvero la condotta che ha guidato l’intera esistenza di Neri Pozza. Per

Neri Pozza e, possiamo dire, per l’intera generazione di intellettuali e scrittori cui lui apparteneva, innanzi tutto per gli autori da lui pubblicati (Parise, Gadda, Montale, Bontempelli, Buzzati, Diano, Bettini etc), la vita separata dalla forma di vita dell’arte e della poesia era soltanto buio e vanità.
Silvio Perrella ha scritto di recente per noi un magnifico libro, Addii, cenni, fischi nel buio, in cui mostra che per quella generazione, scampata al buio e alla «vanità», alla radicale insensatezza della guerra, l’arte e la vita fanno tutt’uno.

Nella figura di Neri Pozza non manca, va detto, nemmeno l’altro lato della vanità: una consapevole alta considerazione di sé e del proprio ruolo di editore, intellettuale e scrittore. Era, in questo senso e soltanto in questo senso (i suoi scritti e la sua corrispondenza l’attestano), un «vanitoso», cosciente, come tutta la sua generazione, di assolvere a un compito altissimo: contribuire, dopo la barbarie della guerra, alla trasmissione del patrimonio culturale del proprio paese e, in tal modo, alla formazione spirituale degli individui organizzati nella propria comunità e società dopo l’immane distruzione del conflitto. Soltanto gli stolti possono, oggi, scambiare questa considerazione del lavoro intellettuale per vuoto snobismo.

Sin dall’istante in cui  –  sono trascorsi ormai sedici anni  –  abbiamo assunto la direzione della Neri Pozza, ci siamo riproposti di ricondurre la casa editrice alle ragioni che hanno determinato la sua nascita e la sua storia. Volendo dipanare ancora il filo della «vanità», quest’intenzione si traduceva nel chiedersi: qual è la «vanità» della nostra epoca, l’insensatezza in cui rischia di precipitare ogni arte e poesia, per dirla con Neri Pozza? E qual è la via per una nuova alta considerazione del lavoro editoriale o, meglio, la strada per riproporre il mestiere dell’editore come «progetto letterario»?

La vanità della nostra epoca ci è sempre apparsa pienamente espressa dalla «retorica» della modernizzazione, dal discorso pubblico che ha accompagnato e accompagna quel processo che ha profondamente modificato l’economia, la cultura, la politica, l’arte di governare del nostro tempo, abbandonando e relegando l’idea stessa della società a uno stato della civiltà in cui, secondo i cantori della modernizzazione, si coltivava l’«assurda» idea che gli uomini formino un’unica, grande famiglia. «There is no such thing as society», diceva la Thatcher negli anni Ottanta, e sulla base di questa parola d’ordine-rappresentazione non è mutata soltanto l’arte di governare  –  che non si cura più degli attardati, degli incompetenti, di coloro che resistono all’incessante cambiamento della modernizzazione, anche se appartengono alla stessa nazione, allo stesso popolo, alla stessa cultura – o la geografia del cosiddetto «sviluppo economico»  che si dispiega territorialmente e non più sulla base di Società nazionali: a Shanghai, Rio, Milano, Berlino, Calcutta, Detroit, ovunque un’area metropolitana possa attrarre investimenti e creatività.

È profondamente mutata la funzione, il modo d’essere della cultura. Non vi è più la necessità di garantire e trasmettere il patrimonio culturale e spirituale di una Società – la fine del predominio delle materie umanistiche nelle numerose riforme della scuola attesta esattamente questo – e la cultura si muta così nel teatro, nello spettacolo artistico-gastronomico-museale che si svolge incessantemente nelle grandi aree metropolitane dove accorrono gli «agenti dello sviluppo», i cosiddetti «creativi»: architetti, ingegneri di ogni genere, musicisti pop, artisti di ogni specie, sceneggiatori televisivi, storyteller, smart people di ogni sorta etc. Attirano investimenti, creano, come dicono loro, economia e lavoro e, così facendo, trasformano il tutto in un «centro storico», in un museo del contemporaneo in cui non vi è più alcun rapporto vivo col passato.

Allontanarsi da questa «vanità» e cercare vie d’arte e di poesia lontane da questa «retorica» ci è sembrato essenziale per costruire una casa editrice degna di quella sorta Settanta anni fa. Così sono nate intere collane: le «Tavole d’Oro», una collana di narrativa interamente dedicata all’Oriente in cui la letteratura mostra il lato nascosto della modernizzazione, la sua zona d’ombra: la Bombay perduta di Jeet Thayil, l’India di Amitav Ghosh sorta dalle guerre dell’oppio, il Giappone di Natsuo Kirino in cui naufraga ogni tradizione, il Vietnam di Viet Thanh Nguyen,  distrutto da un devastante conflitto moderno; «Bloom», la collana di narrativa contemporanea in cui l’Occidente, da Amsterdam a New York a Londra, svela l’alienazione e il cinismo che caratterizzano la sue forme di vita nei romanzi di Joshua Ferris, Matthew Thomas, Herman Koch, Edward St Aubyn; «I Narratori delle Tavole» in cui il rapporto vivo con il patrimonio artistico e culturale dell’Occidente passa attraverso la rinascita del romanzo storico; «I colibrì», dove i territori abbandonati dalla modernizzazione, le periferie del mondo sono al centro dell’indagine, come nei libri di Domenico Quirico; «La Quarta prosa» in cui Giorgio Agamben sviluppa una critica della modernità attraverso un’archeologia del passato; «Il Cammello Battriano» di Stefano Malatesta in cui la letteratura di viaggio si fa riscoperta di antiche tradizioni e saperi.

Abbiamo cercato anche di piantare attorno alla nostra casa editrice i semi di una nuova «società letteraria», creando, sul modello dell’editoria spagnola, un premio, il Premio Nazionale di Letteratura Neri Pozza che l’anno prossimo giungerà alla sua terza edizione, dedicato ai romanzi inediti, e dei gruppi di lettura, i Neri Pozza Book Club, che leggono in anteprima le opere da noi pubblicate, cercando di creare attorno ai loro temi e alla loro esposizione una vera discussione critica.

In questo tentativo di restituire al lavoro editoriale la dignità del progetto letterario vi è certamente un indiscusso compiacimento da parte nostra, che non viene soltanto da uno sguardo gettato alla nostra storia, ma a quello che sta accadendo nel nostro presente e nel nostro mondo. L’avvento dei colossi elettronici generalisti come Amazon sta profondamente mutando l’editoria tradizionale. Appare ormai inutile sfidare tali colossi sul terreno della quantità e della indifferenziazione della merce-libro e, addirittura, della merce in generale. Nel centro di San Francisco sono scomparsi i megastore  –  che non hanno più senso visto che Amazon spedisce e recapita qualsiasi cosa in un’ora  –   e sono riapparse le librerie specializzate, dove è piacevole discutere e fermarsi a lungo. Accadrà lo stesso in editoria, dove soltanto le liste con un progetto probabilmente sopravvivranno.

Siamo perciò anche noi «vanitosi» come Neri Pozza: il futuro è probabilmente nostro.

 

 

 

 

 

 

 

 

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