“Addio tristezza! Dalle neuroscienze un nuovo metodo per guarire dalla ‘depressione moderna'” di Michel Lejoyeux affronta la delicata differenza tra la tristezza e la vera depressione, fornendo un metodo per affrontarle entrambe… – Su ilLibraio.it un capitolo del libro dedicato al tema del “burn out”…

La parola “depressione” viene spesso usata impropriamente per indicare un generico senso di tristezza ben diverso dalla vera e propria malattia; nel suo saggio-manuale Addio tristezza! Dalle neuroscienze un nuovo approccio per guarire dalla “depressione moderna” (Vallardi), Michel Lejoyeux analizza le differenze che separano la depressione vera e propria dalla tristezza e indica come liberarsi da quella generica sensazione di scontento che viene spesso confusa per malattia.

Lo psicologo francese, autore di altri saggi sull’argomento, spiega che la tristezza è un prodotto involontario del nostro cervello e, in quanto tale, può essere sconfitta; ma la grande novità introdotta dal libro è che per combatterla non serve niente altro che la volontà: gli strumenti fanno parte dell’essere umano, che deve educarsi a essere felice.

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Michel Lejoyeux affronta, tra gli altri, il tema del burn out: lo sfinimento volontario da parte del paziente, che teme l’ozio e la tranquillità più di qualunque altra cosa; questa convinzione, indotta dalla società, porta spesso a comportamenti di dedizione ossessiva al lavoro e allo sport, in modo da arrivare a fine giornata talmente esausti da essere convinti di aver fatto il massimo.

L’autore affronta questo problema e spiega come, talvolta, basti ritagliare del tempo per se stessi per sentirsi e stare meglio, concedendosi anche qualche svago e momento di riposo; si sofferma inoltre sulla differenza tra quelli che sono i problemi “reali” e le “preoccupazioni immaginarie“, concentrandosi soprattutto sulle reazioni dei soggetti davanti a entrambe le casistiche: spesso il problema, spiega Lejoyeux, non sta tanto in quello che accade, non nelle difficoltà di per se stesse, ma piuttosto nella nostra percezione di esse, nella nostra reazione e capacità di affrontarle.

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Per gentile concessione dell’editore, su ilLibraio.it pubblichiamo un capitolo del libro:

Non serve maltrattarsi per essere felici

Questo errore di giudizio è presente in molte persone depresse o potenzialmente tali. Lo ritrovo in tutti i pazienti che si dedicano in modo ossessivo allo sport, al bricolage, al lavoro o a qualsiasi altra attività. Più di ogni altra cosa temono il riposo, il dolce far nulla, l’ozio, la pensione, e senza rendersene conto si immolano al burn out. Solo lo sfinimento li rassicura. È il principio della felicità moderna: ciò che mi sfinisce o mi frustra deve necessariamente farmi bene. In nome della religione della fatica e della costrizione, adottiamo una dieta che sia il più possibile punitiva: senza gusto, senza sale, senza zucchero, senza sgarri. I più solerti ricercatori della felicità attraverso l’esaurimento si sottopongono a maratone che li vedono arrivare al traguardo letteralmente in ginocchio. Tutto questo non può che far bene, dicono. Il lavoro resta l’attività più a portata di mano per stancarsi, non pensare ai propri problemi e farsi del male in modo nobile e socialmente apprezzato. Avete appena terminato una lunga ed estenuante giornata in ufficio, non avete trascurato nulla, ciondolate per la stanchezza ma al tempo stesso siete felici per aver portato a termine tutti gli obiettivi che vi eravate posti. Il vostro cervello produce endorfine a più non posso e vi abbandonate al deliquio della stanchezza. L’euforia dello sfinimento è uguale a quella prodotta dall’alcol, con la differenza che per la prima si aggiunge l’obbligo di ricominciare l’indomani. I manager conoscono talmente bene la seduzione dello stress che, paradossalmente, puniscono i loro dipendenti recalcitranti costringendoli a lavorare di meno. «Demansionare» un lavoratore resta una delle tecniche migliori per demoralizzare qualcuno negli ambiti professionali. Ma si parla ancora troppo poco di bore out, o noia patologica, come malessere ancora più profondo del burn out. Ho avuto tra i miei pazienti una donna che considerava importanti soltanto i piaceri e le gratificazioni legati al suo lavoro.

Era riuscita a salire i gradini di una folgorante carriera in un ministero e non vedeva che cos’altro potesse arrivare di bello nella sua vita al di fuori di una nuova promozione. Appariva un essere fragile e depresso, non si sentiva bene, ma non riusciva a capire perché. Era incapace di andare avanti se non grazie al suo lavoro. Sarebbe stato impensabile suggerirle di prendere le distanze dalla sua professione. Avrebbe vissuto il riposo come una condanna. Allora le ho proposto di continuare a lavorare, con lo stesso impegno, ma di cominciare al tempo stesso a commettere qualche «infedeltà» nei confronti del suo ruolo di direttrice finanziaria. Ha seguito il mio consiglio e ha scoperto la musica, si è iscritta a un corso di canto. A forza di concentrarsi su un mottetto di Bach si è innamorata di un membro della corale e con lui ha sperimentato altre gioie oltre i dossier e le riunioni. In altre parole, questa donna ha messo in pratica un’altra tecnica molto efficace: tenere due agende. Vedo troppo spesso uomini e donne dedicarsi completamente al lavoro, al punto da considerare le loro relazioni affettive, la loro famiglia, il loro tempo libero elementi accessori della vita, se non vere e proprie perdite di tempo. Il suggerimento che offro a queste persone è di tenere due agende: una servirà per gli impegni professionali, l’altra per la vita privata. Dovranno riempirle entrambe e con la stessa frequenza, in modo da «costringersi» a gestire la sfera privata con lo stesso zelo con cui si occupano di quella professionale, senza lasciarsi distrarre, nei momenti dedicati agli affetti o agli hobby, da una telefonata o da una mail proveniente dall’ufficio.

Distinguete tra problemi reali e preoccupazioni immaginarie

Uno dei motivi per cui pensiamo di essere malati di depressione è che non riusciamo a distinguere le false preoccupazioni da quelle degne di questo nome. I problemi oggettivi sono quelli che ci piombano addosso e possono influire molto sul nostro morale. Ma, di solito, abbiamo molto più margine di azione di quanto crediamo nel nostro modo di reagire e di affrontare un problema.

Tra l’avvenimento negativo che non possiamo evitare e la nostra reazione si situa il modo in cui ognuno di noi interpreta la situazione. E qui sta la nostra libertà. Non siamo obbligati a reagire in modo catastrofico. Cercate di reperire gli elementi rassicuranti o insoliti di una situazione indesiderabile a priori.

Mettete in piedi una reazione più tranquilla di quella che emergerebbe se lasciaste procedere la vostra macchina della depressione senza freni verso gli abissi più oscuri.

Mi sento in pericolo, affondo, vivo un momento spiacevole = Realtà obiettiva inevitabile
Non sono in grado di fronteggiare questa situazione = Interpretazione che si può correggere
Mi sento depresso = Reazione determinata dalla propria interpretazione più che dalla situazione oggettiva

I filosofi antichi la pensavano allo stesso modo: «Noi non siamo colpiti dagli eventi, ma da quello che ne percepiamo».

Dobbiamo impegnarci a correggere gli errori che ci conducono alle emozioni negative. Non solo è possibile, è anche facile e per nulla spiacevole.

(Continua in libreria…)

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