Il protagonista de “La scomparsa di me”, il romanzo di Gianluigi Ricuperati, ci parla da un dopo morte (una morte accidentale) che ha ancora legami con la vita… Su ilLibraio.it un capitolo

Quante volte si può scomparire? O quante volte si può tornare a esistere prima di essere veramente scomparsi al mondo fisico? Il protagonista de La scomparsa di me (Feltrinelli), il romanzo di Gianluigi Ricuperati, ci parla da un dopo morte (una morte accidentale) che ha ancora legami con la vita. Ci parla attraverso progressive e veloci “immersioni” in “ospiti” legati a lui in vario modo (emotivo, professionale, di sangue) grazie alle quali può raccontarci della propria esistenza, dei legami duraturi, di quelli fallaci, del destino che gli è stato negato, ma anche dei destini di coloro che lo ricevono in sé. Ogni immersione nell’altro avviene come un’invasione spirituale che non intacca l’esistenza del vivo ma, al contrario, dilata e rende più trasparente la vita appena troncata del protagonista.

Viaggio nell’interiorità, e ricerca di una nuova definizione dell’interiorità, La scomparsa di me è anche una paradossale dichiarazione d’amore per la vita, enunciata e resa evidente attraverso la moltiplicazione aritmetica dell’esistenza psichica, fino alla definitiva scomparsa di sé.

ricuperati copertina

 

Su ilLibraio.it, per gentile concessione della casa editrice, pubblichiamo un estratto:

Cosa successe dopo? Altre notti, altri giorni. Dentro e fuori. Fuori e dentro. Sembra ovvio, ma non lo è. Non in questo stato, almeno. Il fatto è che il tempo passava, ed era in sé una cosa decente, quasi accettabile. Di notte avevo capito come addormentarmi subito, perché diventare una particella minuscola di materia, o un bit di informazione, o un’onda, mi dava le vertigini e mi faceva star male – una specie di nausea. Così avevo imparato ad autoeducarmi alla scomparsa da me, alla scomparsa di me, a cadere all’indietro nel gorgo sovraffollato di tutto ciò che ricordavo della vita, e ricordavo praticamente ogni dettaglio, un disegno esploso fatto di forme dati sensazioni occupazioni di spazio e ore. I misteri dell’amore, l’assenza della lotta, le fatturazioni; la gioia culinaria, intrecciata a tavole imbandite e a colonne di bolle che sostenevano i calici di champagne; e la forza del vento in giornate invernali che annunciano la primavera o cambi di temperatura che anticipano gli inverni. Vivere mi piaceva. Avrei voluto confessarmi con qualcuno a cui dire ogni tanto, senza ironia: adoro la vita. Ma non ci sono occasioni del genere, o ci sono soltanto nell’adolescenza, o nella prima giovinezza, quando – sbagliando – si confonde la potenza della vita con la potenza dell’essere amato, mentre il peso della bilancia cade altrove. Cade sull’ostinata presenza confortante che davo a persone cui non interessavo davvero, alle quali interessava principalmente il proprio sviluppo. E come dare torto a chiunque, dalla mia posizione?

Frasi giunte sullo schermo del telefono cellulare, da ragazze con cui stava nascendo un sentimento:

Sai, oggi ho seguito un processo molto interessante, il dominus dice che mi affiderà più responsabilità nei prossimi mesi. Sono raggiante!

Frasi ovvie, normali, legittime, ma che avrei voluto leggere precedute da altre frasi, come:

Ti sto pensando. Mi manchi. Voglio condividere questa cosa bella con te perché ti sento dentro di me per davvero.

E invece no, perché a quelle frasi ovvie e normali sui propri progressi di carriera seguivano solo altre frasi come:

Spero di vederti, appena ho tempo.

E nonostante tutto, nonostante lo stiletto freddo e la delusione circolare che esalavano dallo schermo del telefono, ero giunto a rispondere con:

Credo tu possa fare cose strabilianti. Credo in te.

Non sono sempre stato così, e non pretendo di pensare che non ci fosse una parte consistente di autoindulgenza e disciplina, quando la sola reazione che veramente sentivo uscire dalle superfici era perché non riesci a dirmi una cosa carina? Ma rispondevo diversamente – perciò agivo diversamente – e differenti erano le conseguenze, e differente era la nuvola di aspettativa nei miei confronti. Grande. Piccola. Ma io non ero né grande né piccolo, e non ero un santo: era soprattutto nevrosi, un puntiglio nel fare star bene gli altri che ha attraversato gli ultimi scorci della mia esistenza terrena, poco prima dell’incidente, in modo silenzioso e progressivo. Niente che potesse sul serio cambiare la mia reputazione reale, che era comunque quella di una bestia fatta da sé. Ho scoperto tardi questa facoltà di brezza, questo piacere di stare al mondo togliendo forza a se stessi e aggiungendone ad altri. Era il mantra cristiano che passava dalle bocche dei miei familiari e dei religiosi a scuola, quand’ero piccolo e influenzabile, ma a quanto pare non ero così piccolo e non ero così influenzabile.

Anzi – tutto ciò che desideravo era diventare grande, nel senso di espandermi: e questo richiede uno strano grado di impermeabilità all’influenza del giudizio degli altri, talvolta travestito da preoccupazione estrema. La faccia del truccatore è spesso una superficie sobria, ma è tutta una questione di allenamento.

Era un mondo obliquo e inusuale, c’è da dire. Nel giro di poco ero diventato l’impulso elettrico che accende il computer a casa di un dipendente di Vaporetto – e subito dopo ero entrato nella testa del mio dipendente, scoprendo – tra l’altro – che la società andava avanti anche senza di me. In seguito avevo passato alcuni istanti estremi sotto forma di un cumulo di byte, senza sapere esattamente cosa contenessero, per rendermi conto la mattina dopo che erano il carico di informazioni che conteneva il denaro depositato sul conto corrente di una donna che avevo conosciuto on line qualche anno prima e che un giorno, durante una chat, si era offesa terribilmente perché continuavo a parlare della sua lingua, nel senso anatomico del termine. Ci eravamo scambiati delle foto erotiche, infatti, e nelle sue predominava questa splendida deformazione, la lingua, un centimetro in più della normalità, qualcosa che non noti se non ci pensi su, e quando ci hai pensato su non puoi più fare a meno di notarlo. Aveva un neo sulla spalla e, contorcendosi, riusciva a leccarne il confine esterno. Mi aveva scritto più volte raccontandomi i fatti più tristi e difficili della sua vita recente, e avevo replicato con parole di compassione e comprensione per poi ritornare puntualmente a ciò che ci accomunava davvero: le foto, il desiderio, quella splendida lingua potenziata. Finì con l’inviarmi una mail minatoria, che recitava così:

Questo messaggio ha lo scopo di preannunciarti che, se proverai a entrare nuovamente nella mia vita, invierò le nostre  conversazioni a tua moglie. Giusto per pararmi il culo. O la  lingua, come piacerebbe a te.

Al che fui tentato di rispondere: Non so di che cosa stai parlando. Ma poi niente, a volte basta un po’ di cortesia e diplomazia e queste fiamme si calmano. Quel mattino, tuttavia, scoprii che non aveva un’esistenza facile, e che i soldi erano un problema contingente. Dopo altre immersioni negli stadi infinitesimali della materia che collega le case e le cose appartenenti al nostro ampio reticolato ambiente-mondo, mi resi conto con certezza che il meccanismo doveva essere proprio come l’avevo immaginato fin dall’inizio. Per una specie di punizione, o come una specie di metronomica allucinazione, il giorno cominciava nella testa di individui uniti dal semplice fatto di conoscermi o essere entrati in contatto personale con me – e la notte passava nel cosmo miniaturizzato e inquietante che connetteva gli appartamenti di questi individui. Ero diventato una trottola: un’invocazione: una biglia senza dimensioni, nell’ordine dell’architettura dei vivi.

Entravo, senza accorgermene, dopo una specie di sonno, nella vita di diversi individui che a diverso titolo avevano costellato la mia vita civile, la mia vita corporale, la mia vita burocratica – la mia vita morale. Era ormai una situazione chiara. Non potevo intervenire. Potevo solo guardare, e incassare. Qualcosa mi aveva condannato a essere il copilota dei miei copiloti…

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