“Lo scuru”, il primo romanzo del giovane Orazio Labbate

Poco prima che la morte lo raggiunga, Razziddu Buscemi, un vecchio siciliano da tempo emigrato a Milton, West Virginia, rievoca la sua vita passata. Nel disfacimento dei ricordi, mischiati a suggestioni metafisiche, il vecchio narrerà di un’infanzia suo malgrado visionaria, scaturita dagli esorcismi subiti, e di un’evoluzione violenta e dolorosa verso la maturità.

E’ la trama de Lo scuru (Tunuè), il primo romanzo del giovane Orazio Labbate, che con una scrittura ispirata tanto dal gotico americano di Faulkner e McCarthy quanto dalla prosa barocca di suoi conterranei come Bufalino e D’Arrigo, disvela il segreto magico della Sicilia meridionale. Ed è proprio la lingua dell’autore a colpire. Non a caso, il libro è stato apprezzato anche da uno scrittore come Antonio Moresco.

Su IlLibraio.it l’incipit del romanzo
(pubblicato per gentile concessione di Tunuè)

Il mio nome è Razziddu Buscemi. Sono un avvocato in pensione.

Seduto nel mio portico di Milton, West Virginia, guardo la prateria e il campo di granturco. La porta con le zanzariere sbatte e dentro casa non c’è nessuno. Mia moglie Rosa è morta qualche notte fa. Dormiva in camera da letto mentre sgusciavano dal cielo le prime stelle rosse che da alcune settimane vedo più spesso. Rosa aveva gli occhi nelle ossa del buio. Le ho preso i polsi sotto la luce morta della luna. Erano sbiaditi i polsi e non batteva nulla dentro di lei. Credevo di percepire fantasmatici respiri provenire dalla sua bocca. Il vento dalla prateria portava gli affanni dei morti, le ultime boccate di aria vivente, le parole di Dio. Chissà dove sarà finito il cuore di Rosa: sotto il letto? Dentro le nuvole?

Ho visto, quella notte, dal portico, tanti morti che risalivano dalla prateria verso il cielo. E i morti avevano mantelle nere. Alcuni abbaiavano, altri ridevano, altri ancora non volevano lasciare la terra e così sono rimasti a vagare attorno alla mia casa per infine, una delle notti scorse, decidersi di rifuggire nel firmamento brillante della luna piena. Avevo paura bruciassero la mia casa.

Ho i capelli bianchi e le mani vecchie ma negli occhi sono ancora in grado di riconoscere la luce siciliana. La luce degli astri. La luce delle chiese. La luce del fuoco. Le luci mi fanno compagnia, in attesa del sonno eterno. Il rubinetto perde, ormai lo fa da anni. Gocciola. In cucina di notte mi siedo e ascolto. Ma le mie orecchie non sanno ascoltare più niente della notte. Gli animali stanno morendo. I campi non sanno più annerirsi. Spero che avrò nuove orecchie un giorno. L’udito dei mari e delle montagne silenziose.

Vi è mai capitato di vedere le nuvole immerse nell’arancio lacerato del tramonto? Ecco, se didentro ne rinvenite punti grigi allora osserverete bene il tempo. Il tempo non è mai di un solo colore. Lo capisco solo adesso. Il tempo è un traghetto manovrato dalle cose morte e io sto morendo.

Qui le nuvole non sono però di un arancio sangue, come in Sicilia.

Da ragazzo parlavo una mezza lingua: siciliano fuso all’italiano. A quei tempi possedevo la pulizia delle immagini e l’ingenuità di chi mangia ansante. Da picciotto iniziai a vedere le cose con chiarità. Ora vedo tutto sfuocato. Dove sono, adesso, le statue, mia madre, Nitto? Rosa?

Ho l’impressione di vedere il Signore dei Puci anche negli occhi del mio droghiere Rust, forse perché sono di cartapesta entrambi. Gli ho detto a Rust che sembrava un mostro e lui mi ha risposto che era tempo di riposarmi e che mi trovava stanco. Lungo la via del ritorno la gente aveva le facce incavate come teschi di coyote. Durante il tragitto mi sono perso lungo una strada deserta e mi sono addormentato alcuni chilometri prima della mia casa. Tremavo dal freddo e ho riposato dentro una stazione di servizio illuminata precariamente. Mantenevo nel sonno gli occhi aperti perché avevo paura di morire. Dopo un’ora mi alzai e davanti a me vidi la Statua, abbagliata da una lampada penzolante sopra le pompe di benzina. Il feticcio voleva strozzarmi. Chiusi gli occhi d’istinto e una volta riapertili non c’era più. Tornato a casa preferii dormire nella stalla aperta, mentre forconi metallici ombravano i cavalli e io credevo stesse entrando la statua. C’era puzza di rosmarino. C’era odore di legno bruciato. Forse non è vero tutto questo. Forse io non sto esistendo. Ho mal di stomaco, da un anno, il dolore mi divora le pareti delle budella. Mi rosicchiano i vermi. Sicuro. Lo spaventapasseri fuori è immobile con i corvi che gli beccano il cappello di paglia e la prateria è inerte.  Le nuvole degli Appalachi sono di color sciroppo per la tosse. Non posso berne, ché lo stomaco mi fa vomitare tutto. Eppure berrei tutte le cose: notte, mare, cieli, facce, pance. Eppure stanno dissolvendosi. Io non ho poteri magici per fermare la distruzione. Mi è rimasta la forza per raccontare la mia fabula mentre Marty, l’husky, mansueto, latra alle oche. I porci si specchiano nel fango e la fattoria rossa perde vernice dal tetto isoscele. I buchi sono coperti da travi gialle.

In principio, il mio verbo era confuso, un fantasma piccolo, tormentato dalla religione. Nel sentiero della maturità ne uccisi il disordine con la spirtìzza della ragione e la luce del fuoco. Ora, pieno di morte, mi sforzo di parlare, tramite la debolezza, per saggezza. Sotto forma di litania, invaso dalla mia fine ultimativa.

(continua in libreria…)

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