Antonella Mollicone ha lavorato per oltre 10 anni (raccogliendo testimonianze sul campo e attingendo alla memoria popolare e storica del Basso Lazio), a “La femminanza”, il suo debutto narrativo. Una saga familiare che attraversa mezzo secolo di Storia italiana. Un racconto intimo e corale insieme, che celebra l’importanza della solidarietà femminile, tra riti ancestrali e piccole ribellioni, fughe d’amore e gioie condivise. Su ilLibraio.it l’autrice racconta di sua nonna Loreta e della sua bisnonna Peppina, e parla della “Cerchia”, al centro del libro, “esistita da sempre”: “La loro era una Cerchia di segreti, come una cinta di mura attorno alla vita. Un mistero d’anima… A tutte queste donne dico grazie”
La Cerchia è esistita da sempre. Solo, io le ho dato un nome. È successo il 26 agosto 1981, prima dell’imbrunire.
Le vicine di casa, insieme a mia nonna Loreta e alla mia bisnonna Peppina, erano sedute in cerchio sotto l’ombra del falzarago, a spaccare noci e mandorle per i dolci da aggiungere alla tavola imbandita per la mia prima Comunione, che ci sarebbe stata il 30 agosto.
Tavola imbandita notte e giorno, poiché gli invitati arrivavano senza preavviso a fare gli auguri. E il tavolo dei dolci e dei confetti non poteva sfigurare rispetto a quello in cui erano esposti i regali e le buste coi soldi.
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L’aiuto delle vicine per i preparativi era iniziato a metà giugno. Perché realizzare centrini all’uncinetto come segnaposto per centocinquantasette invitati non era certo uno scherzo.
Di mattina o, più spesso, prima che facesse sera, le donne sedevano in cerchio a lavorare, mentre chiacchieravano e recitavano orazioni ai rintocchi delle campane e chiedevano a San Bernardo di aiutarle nei guai di famiglia. E io gravitavo attorno a loro, saltando la corda o attaccata al falzarago, incuriosita da gesti precisi e pacificatori nei quali non mi era permesso entrare davvero.
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Il 26 agosto, una smania inconsueta afferrò le donne. L’innesco di sicuro erano state la padellata di pizzelle e la bottiglia di vino rosso che nonna Peppina aveva offerto a tutte loro per festeggiare il suo ottantaduesimo compleanno.
Dopo un parlottare sottovoce, accompagnato da gomitate alla vicina e risatine sommesse, più di qualcuna iniziò a battere a terra i piedi e quasi tutte a lanciare lembi di frasi tra risate grasse. Allora smisi di girare attorno al falzarago e attaccai al suo tronco le mani unte di pizzella.
Le donne parlavano di lenzuola, carne fresca, sangue vivo e infornate di pane. E allargavano le gambe, si tiravano su le gonne quasi fossero infuocate, si asciugavano il sudore del collo e del petto coi fazzoletti di stoffa bianca.
Di fronte a sua suocera Peppina, nonna Loreta teneva gli occhi bassi. Erano le uniche due a parlare ancora sottovoce e a ridere a denti stretti. “Pupe’”, mi disse a un certo punto nonna Loreta, “questa n’è cosa pe’ te. Vai da ’n’altra parte”. E bastò che mi allontanassi verso la stalletta perché anche lei cominciasse a singhiozzare risate.
Quatta quatta dietro il muretto della stalletta, guardavo le donne che continuavano a dire cose che appuntavo nella mente senza capire. La loro era una cerchia di segreti, come una cinta di mura attorno alla vita. Un mistero d’anima.
Però i maschi ci entravano, era chiaro. Perché qualcuna nominava il marito. Di colpo, nonna Peppina iniziò a piangere per il riso e a spingere gonna e zinale nero in mezzo alle gambe, come volesse contenere un bisogno, scoprendo i mutandoni bianchi. Poi si girò verso la stalletta. “Le femmine fatte devono sape’ regge la natura della carne“, disse forte.
Tenni a mente quella frase, ripetendola per giorni come uno dei versi che la maestra Silvana mi faceva imparare a memoria. La scrissi come incipit del mio diario solo l’anno successivo, dopo aver ottenuto il permesso da nonna Peppina. Non era una di quelle cose che si dovevano tramandare oralmente e che si potevano svelare solo in particolari circostanze, mi disse, come i segreti che mi avrebbe svelato la notte di Natale non appena fossi diventata signorina. A quelle rivelazioni sì che avrei dovuto fare attenzione: per farle diventare vere ogni volta, sarebbero dovute venire fuori solo attraverso la voce.
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Qualche anno dopo rincontrai la Cerchia a Colfelice. Grazie a dei conoscenti, conobbi za Lucia, che mi istruì per prima cosa sulle proprietà di una pianta fastidiosa: l’ortica. Con nonna Peppina avevo sempre raccolto e utilizzato altre erbe, ma all’ortica non mi ero mai avvicinata. Za Lucia mi fece capire che sarei dovuta passare per quella pianta, se avessi voluto che mi svelasse altro. Dovetti farmi pungere una mano intera prima che mi invitasse di nuovo a Colfelice “per l’inizio della storia”.
Una settimana dopo, si fece trovare con altre sei donne in mezzo all’ara, lo spazio circolare in cui un tempo si trebbiava, si battevano fave, fagioli, grano, orzo, si ballava. Tutte novantenni o quasi, tutte nate tra la fine dell’Ottocento e i primissimi anni del ’900. Tutte a filare. “Alla Rocca, di filatrici ce ne stavano tante”, disse za Lucia, mentre mi faceva posto tra lei e Marietta. E mi raccontò del tentativo loro, e di una decina di altre buonanime, di avviare, proprio intorno agli anni venti, una piccola attività artigianale con la lana filata a dovere e i capi che con essa si realizzavano.
Alla fine mi rivelò che, se ci fossero state le stesse regole di allora, io non mi sarei potuta sedere in mezzo a loro. Alla Cerchia vera entravano solo femmine maritate, e dopo un battesimo liberatorio e un po’ pepato.
Marietta, che sedeva alla mia destra, ricordò i mutandoni che allora aveva fatto volare per sentirsi libera, avviando i ricordi delle altre. E dalla Cerchia si alzò una risata grassa, accompagnata da frammenti di detti ciociari piccanti. Adesso, che avevo sedici anni, ero in grado di codificare quel linguaggio.
“L’amore non è peccato. Unisce anima e corpo“, disse za Lucia alla fine. Me ne andai stordita. Delle novantenni che parlavano in questo modo erano una stranezza senza pari. Mai mi sarei aspettata una tale libertà, mai un tale azzardo. Eppure, era tutto chiaro: a Colfelice, la Cerchia della mia prima Comunione aveva trovato lo sfogo ultimo, il bandolo della matassa. Ma rimaneva ancora tanto da esplorare sulla potenza archetipica delle donne della mia terra. Quella potenza spesso ostacolata dagli uomini, ma pure da molte di loro, timorose di perdere il poco che avevano e, per questo, più propense a convivere coi fantasmi, magari cercando di scacciarli attaccandosi alla cannella delle botti, che a lottare per far esplodere la femminanza.
Negli anni continuai ad entrare nelle Cerchie, ad annodare fili di memorie toccate a nomi e destini precisi.
Nomi di donne che promisi sarebbero rimasti nascosti in cambio della consistenza di saperi antichi, di segreti svelati a mezzanotte della Vigilia di Natale e di sedimenti di morte, riscossa, spavento, amore, risaliti alle bocche nude vicino alle sorgenti, al freddo di febbraio bisestile, in mezzo all’orto, su una seggiola di paglia fuori dall’uscio, accanto al fuoco, tra lavori a maglia, erbe medicinali, conserve di pomodoro, maiali da sistemare.
A tutte queste donne dico grazie. A queste donne che hanno continuato a decifrare e a onorare la propria esistenza e hanno cercato di respirare sotto le macerie della vita anche per quelle che non hanno avuto la forza di farlo.
L’AUTRICE – Antonella Mollicone vive a Roccadarce, un paese collinare del Lazio meridionale. Dopo la Laurea in Lettere Classiche, il Baccalaureato e la Licenza in Archeologia Cristiana, ha iniziato a insegnare materie letterarie e a occuparsi di epigrafia. Ha poi aperto Bibliotè, libreria – caffè letterario al centro della città di Sora, che gestisce per diversi anni, ed è diventata Ricercatrice Letteraria per i Comuni del suo territorio e direttrice artistica del Labirinto dei Musei dello scultore Vincenzo Bianchi.

Antonella Mollicone nella foto di Basso Cannarsa
A La femminanza, il suo debutto narrativo, in libreria per Nord, ha lavorato per più di dieci anni, raccogliendo testimonianze sul campo e attingendo alla memoria popolare e storica del Basso Lazio.
La femminanza è una saga familiare che attraversa mezzo secolo di Storia italiana, dall’ascesa del fascismo al boom economico, passando per il bombardamento di Montecassino e gli orrori delle marocchinate. Un racconto intimo e corale insieme, che celebra l’importanza della solidarietà femminile, tra riti ancestrali e piccole ribellioni, fughe d’amore e gioie condivise.
La trama porta a Rocca d’Arce, paesino in provincia di Frosinone, dove tutti conoscono i Maletazzi, i signori che vivono nel più bel palazzo del centro. Però solo Camilla, la più giovane della famiglia, sa quanti segreti si nascondono tra quelle stanze, quanto dolore. Un dolore che lei custodisce in silenzio finché, nell’autunno del 1920, Peppina, la levatrice, non l’accoglie nella Cerchia, un gruppo di donne che si ritrova per condividere fatiche e saperi. Alla Cerchia si preparano decotti e medicamenti, si fila la lana, si raccontano storie e si scambiano confidenze, senza timore di essere giudicate o rifiutate: che siano ricche o povere, giovani o anziane, tutte le donne trovano nella Cerchia rifugio e comprensione, in nome di quella femminanza che da sempre è scintilla di vita e legame di sorellanza. E che per Camilla diventa il balsamo capace di curare le ferite del passato, permettendole finalmente di aprirsi all’amore di suo marito…
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