Un romanzo del 1953 che anticipava la denuncia delle dinamiche patriarcali e mafiose: “La vigna di uve nere” di Livia De Stefani (1913 – 1991) torna in libreria grazie ad astoria, rivelandosi ancora attuale nella sua capacità di raccontare la violenza domestica attraverso i gesti, i silenzi, i rituali. Un classico rimosso che oggi si riscopre necessario…

“Là dov’è la vigna di uve nere, non ci sono strade”: da questa soglia Livia De Stefani inaugura un Sud severo che diventa etica dello sguardo.

Con il rilancio curato da astoria ritorna La vigna di uve nere, romanzo d’esordio uscito per Mondadori nel 1953 e poi ripreso da Rizzoli (1967) e Isbn (2010), opera con cui una narratrice, tra le più originali del Novecento italiano, anticipando sensibilità attuali,  denuncia il sistema patriarcale, e al contempo quello mafioso, indissolubilmente congiunti tra loro all’interno di una realtà familiare intossicata da violenze e soprusi.

Un recupero che acquisisce così il valore di una riparazione editoriale, riportando alla lettura comune la prima autrice italiana capace di raccontare la mafia nella sua quotidianità brutale.

Piatto copertina 2025 Astoria "La vigna di uve nere" - Livia De Stefani

La vicenda si svolge in un entroterra che Carlo Levi definisce “serrato nei recinti e nei pensieri”, territorio dove la geografia si converte in etica. A Cinisi, provincia di Palermo.

Casimiro Badalamenti (quasi omonimo – forse non casualmente – di quel Gaetano Badalamenti, boss proprio di Cinisi mandante dell’uccisione di Peppino Impastato), proprietario della rara vigna di uve nere, misura il mondo con un metro verticale; accanto a lui Concetta, amante di lunga data e poi moglie tardiva, affetta da un’adorazione per il marito che ha i tratti della dipendenza; i figli nati fuori dal matrimonio vengono allontanati subito e affidati a famiglie diverse, perché l’onore si preserva sottraendo le prove al loro stesso esistere.

Anni dopo, quando l’età e la posizione lo persuadono che sia venuto il momento di “mettere ordine”, Casimiro ricompone la famiglia nella tenuta: i ragazzi, senza memoria comune e ciascuno con una storia già iniziata altrove, tornano sotto lo stesso tetto. Il rientro, preparato come si sistema un podere dopo la piena, innesta il meccanismo tragico: l’affetto, chiamato a colmare un vuoto che la biologia non riempie, si deforma presto in attrazione sessuale, incestuosa fino alla violenza.

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Il libro vibra tra cronaca domestica e figura tragica; De Stefani rende percepibile la densità mafiosa nei gesti ponendo la materia narrativa in primo piano: l’autorità maschile ordina corpi e stanze, la comunità vigila, un catechismo senza tribunali sancisce le pene. L’incesto, convocato con pudore, risulta il precipitato di una sottrazione prolungata: figli rimossi e poi costretti a una convivenza che pretende sangue senza aver costruito affetto.

La colpa si mescola con l’ignoranza, il desiderio con la richiesta di protezione, mentre la meccanica dell’onore trasforma l’errore in condanna. Resta impressa la sequenza di atti minimi da cui discende la scena estrema: allontanamenti, ritorni decisi dall’alto, innesti familiari trattati come contabilità, sorveglianza dei vicini attenta alla reputazione più che al bisogno.

Livia De Stefani

Livia De Stefani

A rendere visibile e insieme instabile la spietata fotografia via via messa a fuoco dall’intreccio è la lingua, evocativa e densa, con cui l’autrice costruisce immagini e ambienti che rispondono e partecipano silenti al dramma umano. Già l’incipit crea un clima morale, ancora prima dei personaggi: «Là dov’è la vigna di uve nere, non ci sono strade (…) Se il vento è favorevole, ne arriva un ansimare fioco e tramortito come di persona soffocata da un bavaglio; un ansimare che, per non essere percorso da altre varianti di suono, diventa un’aggiunta di silenzio». Quel silenzio, che non è vuoto ma sostanza, si configura come archetipica condizione della violenza.

Pur radicato nel primo Novecento siciliano, il testo evita esotismi, perché l’ambiente si fa laboratorio di forme. Eugenio Montale colse il punto parlando di “coraggiosa disinvoltura” che dal realismo scivola verso una favola cupa, refrattaria alle assoluzioni.

La pedagogia della docilità femminile prende corpo in Concetta, desiderosa di maternità; la gerarchia del sangue eleva il figlio maschio a fiore intoccabile, mentre la figlia, “polpa” da potare, viene esposta a un destino chiamato dovere. La comunità orchestra sanzioni.

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Muovendosi tra questi margini narrativi, si definisce così anche la figura dell’autrice, che il rilancio invita (e, forse, obbliga) a riconsiderare. Palermitana, classe 1913, Livia De Stefani cresce tra latifondi e regole antiche, si sposa giovanissima, si trasferisce a Roma e attraversa i salotti di Morante e Bellonci, conservando però l’esperienza concreta della proprietaria terriera che pianta, contratta, vende.

Dopo La vigna di uve nere, usciranno Gli affatturati, Passione di Rosa, Viaggio di una sconosciuta, fino a La mafia alle mie spalle; in mezzo, diffidenza da parte dell’editoria italiana, traduzioni, uno sceneggiato Rai, e un passaparola tra lettori che ha custodito l’opera quando i cataloghi tacevano.

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Rimettere oggi questo romanzo in mano al pubblico equivale a offrire uno strumento per leggere il presente. La narrativa di De Stefani chiarisce la genealogia della violenza familiare e mostra come cura e possesso si confondano nel linguaggio quotidiano, come onore e reputazione, lasciati senza contraddittorio, producano una giustizia domestica che si arroga il diritto di vita e di morte. Recuperarla restituisce continuità a una linea femminile della denuncia che precede e accompagna lo sforzo civile.

E resta così un’immagine, a sigillo: sul punto più alto della collina, dove “non ci sono strade”, la vigna nera brilla come una brace trattenuta; il vento arriva spezzato, “come di persona soffocata da un bavaglio”, e quel respiro corto fa da colonna sonora a ogni decisione. Tornare a leggere oggi La vigna di uve nere toglie quel bavaglio senza promettere consolazioni: lascia che il grappolo scuro – bellezza e minaccia per il peso stesso – torni a pendere davanti ai nostri occhi, affinché il silenzio, una volta nominato, non copra ciò che accade nelle stanze dove il mondo non vuole entrare.

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