Nonostante abbia diversi elementi tipici del genere distopico (l’ansia sul futuro riproduttivo della specie, le donne costrette a un ruolo subalterno, le crisi depressive degli abitanti, le condizioni inumane di vita), “Amatkca” di Karin Tidbeck non può essere definito un romanzo fantascientifico femminisita, perché è un’opera molto più complessa e innovativa. Il personaggio principale, Vanja, è una donna di una passività cavernosa, rassegnata all’infelicità, indifferente al suo stesso modesto ruolo, che non ha nulla a che fare con i classici protagonisti delle narrazioni distopiche per giovani adulti, solitamente adolescenti maschi o femmine dotati di caratteri eccezionali, destinati a ribellarsi contro il sistema per abbracciare la rivolta… – L’approfondimento di Violetta Bellocchio

La prima edizione di Amatka (Safarà, traduzione di Cristina Pascotto) appare in Svezia nel 2012. Quella che arriviamo a leggere noi, con qualche anno di ritardo, è la solida traduzione italiana del testo che Karin Tidbeck ha tenuto a preparare personalmente per il mercato anglo-americano, curandosi lei di adattare il romanzo originale.

Non si tratta di mania del controllo da parte di un’autrice, quanto, se mai, del bisogno estremo di salvaguardare l’integrità del linguaggio, ma considerando il peso che le scelte lessicali possono avere nel mondo narrato – parliamo di preservare l’ordine del mondo di condannarlo alla distruzione in base alla pronuncia errata del sostantivo “matita”, l’esatto ritmo di tre semplici sillabe che si inceppa sulle labbra di una bambina distratta – allora è possibile che l‘attaccamento alle parole riesca a diventare la chiave per la salvezza personale, lo strumento di una grande rivoluzione ancora al di là da venire e l’ingrediente segreto nascosto dentro la mente di chi un certo mondo vuole vederlo bruciare, al diavolo le conseguenze, meglio muoversi liberi in una terra incognita che vivere con un minimo di sicurezza ma il terrore costante di venire cancellati – con l’esilio o peggio – da un regime punitivo travestito da ultimo baluardo dell’umanità. 

Karin Tidbeck

Nel contesto di quella che oggi parecchi amano chiamare “distopia” e per cui sarebbe sempre meglio adottare termini più netti (“fiction di anticipazione” quando si lavora sull’orizzonte di un futuro prossimo, “fantascienza” quando si vuole giocare sul sicuro, “un puntatone di Ai confini della realtà” quando si riscrivono elementi familiari inserendo un tratto inspiegabile), un testo come Amatka può almeno farsi forte dell’appartenenza al distopico puro, che concede molto poco al lettore casuale.

Siamo in un mondo distrutto, organizzato intorno a “colonie” dove le relazioni e le professioni sono imposte dall’alto, nessun margine lasciato al desiderio individuale. Siamo in pochi, tra l’altro. Eventi cataclismici che hanno minato l’esistenza stessa della materia obbligano gli adulti a seguire routine rigidissime perché la realtà, a grandi linee, rimanga uguale a se stessa, come, ad esempio, pronunciare i nomi degli oggetti di uso comune, scrivere e riscrivere etichette da appiccicare sopra valigie, tubetti di dentifricio, eccetera.

Aveva ragione Jeff Somers quando sosteneva che in Amatkaogni cittadino adotta un comportamento ossessivo-compulsivo per sopravvivere”. Allora il conformismo, il quieto vivere, verrà elevato a bene supremo. Allora assisteremo, per gradi, all’obbligatoria glorificazione dei salvatori, scopriremo le mille maniere in cui viene praticato il controllo estremo sulle informazioni. Prima saremo infastiditi, poi ci ritroveremo ad accettarlo come il male minore. Almeno fino a quando qualcuno deciderà di fare qualcosa.

La bellezza di Amatka è anche il suo vero vizio di forma. L’eroina Vanja è una burocrate. Un ingranaggio del sistema, nemmeno felice. Il personaggio che ci porta dentro la storia, quello che si muove nello spazio, agisce, in concreto, come il segnale luminoso che il lettore segue nel primo orientarsi all’interno di un mondo nuovo e terribile, è una donna di una passività cavernosa, rassegnata all’infelicità, indifferente al suo stesso modesto ruolo: Vanja occupa un posto, tutto lì. È un tipo di protagonista pochissimo usato nel genere, ma ci sono delle ragioni: sul piano della narrazione spiccia, il distopico per giovani adulti, nei primi anni di questo decennio, poneva al centro di tutto un adolescente maschio o femmina dotato di caratteri eccezionali, destinato a ribellarsi contro il sistema per abbracciare la rivolta (la cosa aveva assunto proporzioni talmente macroscopiche da giustificare l’esistenza di uno sketch del Saturday Night Live dedicato solo a smontare questo tipo di intrattenimento). Il senso del caricare il personaggio così è funzionale a far sentire speciale il lettore, ma accidenti se, in senso bieco, funziona.

Procedere in direzione opposta significa prendersi sulle spalle il rischio (calcolato?) di tagliare fuori chi legge, accertarsi che lui o lei riponga nel romanzo un sufficiente investimento intellettuale; il vantaggio è che, quando dopo un numero di pagine che sembra infinito (non lo è), Vanja comincia a prendere fiato, ad aprirsi anche accidentalmente alla curiosità, hai la sensazione di tirare il fiato tu. Amatka può essere inteso come una ribellione autoriale e indipendente al desiderio di compiacere. E, va detto, intorno al gelo dell’eroina c’è un mondo costruito con cura, mai citazionista ma nutrito dalla fantascienza low-fi anni ’70 e dall’estetica di quel cinema che ha cercato di riportare in scena il clima reale dei paesi dell’ex blocco sovietico in determinati periodi della loro storia – metà i tardi anni ’80, quando il sogno era stato messo in soffitta, e metà i primi anni Zero, con personaggi tragicomici che si barcamenavano nel degrado materiale. (Per chi volesse approfondire, A est di Bucarest , il primo lungometraggio di Corneliu Porumboiu, rappresenta un punto d’ingresso quasi leggero nel filone. No, davvero, fa ridere.).

Amatka esce per la prima volta nel 2012, ed evolve – pare – da una raccolta di frammenti poetici prodotti da Tidbeck stessa, affascinata a tal punto dalle possibilità di ricombinare il testo all’infinito da costruirci sopra un intero universo. Aveva un precedente non ovvio e molto più tradizionale nell’andamento della storia: il romanzo Pontypool Changes Everything, adattato con successo per il cinema dal furbacchione dell’indie canadese Bruce McDonald, che ipotizzava la nascita di un virus del linguaggio a cui nessuno poteva davvero dire di essere immune. Ma la tempistica, in questo caso, gioca a favore di Tidbeck. Alcuni motivi ricorrenti che oggi vengono individuati come “capisaldi del genere”, l’ansia sul futuro riproduttivo della specie che limita severamente le scelte delle donne, obbligate a un ruolo subalterno o forzate a prendersi un partner e diventare madri, forse non erano tanto chiari a tutti soltanto sei anni fa, mentre alcune tracce del malessere generale delle colonie, dalle crisi depressive che affliggono gli abitanti ricoverati nei centri medici ai piccoli tentativi di sopportare condizioni inumane, suonano fin troppo contemporanee.

Forse Amatka non è stato venduto come pura fantascienza femminista in virtù della sua bizzarria e dell’elevata intelligenza speculativa che pretende dal lettore, anche Tidbeck era comunque presente nell’antologia Le visionarie e considera suoi mentori Jeff e Ann VanderMeer.

Forse, più banalmente, sarebbe stato difficile attaccare l’abusata etichetta di “romanzo femminista” a un’opera complessa, che rimanda la ribellione esplicita fino a quando non è, davvero, quasi troppo tardi, e una dittatura si dimostra assai difficile da rovesciare senza abbracciare tra le conseguenze possibili l’annullamento, la deriva, una radicale perdita di identità.

L’AUTRICE – Scrittrice, traduttrice e giornalista, Violetta Bellocchio (nella foto di Valentina Vasi) è l’autrice del memoir Il corpo non dimentica (Mondadori, 2014). Ha fatto parte di L’età della febbre (minimum fax, 2015) e di un’altra antologia, Ma il mondo, non era di tutti? (Marcos y Marcos, 2016), curata da Paolo Nori. A sua volta ha curato l’antologia di nonfiction Quello che hai amato. (Utet, 2015). Ha pubblicato Mi chiamo Sara, vuol dire principessa (Marsilio) e il suo ultimo romanzo, uscito per Chiarelettere, nella collana Altrove, è La festa neraQui i suoi articoli per ilLibraio.it.

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