“La società ha fallito nel riconoscere il vero potere delle parole: le usiamo nel quotidiano per scopi superficiali e dimentichiamo che possono essere usate come un’arma. In America il Presidente non rispetta le parole e ne abusa ogni giorno: inevitabilmente i cittadini risentono di questo suo comportamento”, ci racconta Ben Marcus, in libreria con “L’alfabeto di fuoco”. L’intervista de ilLibraio.it, in cui si parla, tra l’altro, del ruolo delle scuole di scrittura

Le parole sono portatrici di una malattia mortale che sta mettendo in ginocchio la popolazione della costa est americana. Gli unici immuni sono i bambini e i ragazzini che, strabiliati dal loro stesso potere, si divertono ad aggredire parenti e sconosciuti con fiumi di parole. Al centro del racconto Sam e Claire, due genitori malati per via delle parole pronunciate da Esther, la figlia adolescente. Questo è  L’alfabeto di fuoco (edizioni Black Coffee, traduzione di Gioia Guerzoni), il nuovo libro di Ben Marcus, anche autore del romanzo Notable Women, ancora inedito in Italia, e di due raccolte di racconti, una delle quali, Leaving the Sea, verrà tradotta prossimamente sempre da Black Coffee. ilLibraio.it ha intervistato lo scrittore americano classe ’67.

Ben Marcus

Nel suo romanzo le parole uccidono. Nella realtà quanto è importante usare le parole con attenzione?
“Non ho inventato nulla scrivendo che le parole possono uccidere: sappiamo che sono potenti e possono essere usate per ferire gli altri, nascondere fatti, distorcere la realtà. La società ha fallito nel riconoscere il vero potere delle parole: le usiamo nel quotidiano per scopi superficiali e dimentichiamo che possono essere usate come un’arma. In America il Presidente non rispetta le parole e ne abusa ogni giorno: inevitabilmente i cittadini risentono di questo suo comportamento”.

Margaret Atwood ha raccontato di aver deciso di scrivere Il racconto dell’Ancella descrivendo solo situazioni già accadute nella storia dell’umanità. Lei come ha scritto L’alfabeto di fuoco?
“Esagerando la realtà. Esiste una tensione tra genitori e figli. Spesso i bambini non hanno alcun potere ma capiscono come acquisirlo con il pianto. Ero interessato a immaginare cosa accaderebbe se, chi non ha mai avuto potere, ne entrasse in possesso. La mia visione è negativa, perché il potere viene usato per controllare gli altri. Del resto storicamente si è sempre abusato del potere”.

Secondo lei il rinnovato interesse per il genere distopico è una conseguenza della situazione politica?
“Ho sentito dire che i romanzi distopici sono morti. Potrebbe darsi. In televisione e nei film c’è un’ossessione nel raccontare storie sulla fine del mondo. In ogni momento storico gli esseri umani vogliono affermare che il tempo in cui vivono è il più importante, che forse vedranno la fine della civilizzazione. Vogliamo dare un significato speciale a quello che ci accade. E poi c’è un certo fascino nell’immaginare la fine di tutto, quindi ci inventiamo storie sull’apocalisse. Ora c’è grande attenzione per clima ed ecologia, sia nei film sia nei libri, perché il cambiamento climatico fa paura”.

Crede che a quasi due anni dalle elezioni la letteratura si stia facendo testimone della situazione politica americana?
“Alcune volte la letteratura si contrappone alle notizie. Dopo l’11 settembre tutti si chiedevano dove fossero finiti i romanzieri perché ci si aspettava un loro commento. Ma in realtà gli scrittori hanno risposto ognuno a suo modo e secondo i propri tempi. Lo stesso sta accadendo ora: conosco autori che stanno già lavorando a storie che c’entrano con Trump, ma anche altri che sono interessati a raccontare questo tipo di estremismo con la fiction. In ogni caso è impossibile tenere il mondo fuori dalla propria scrittura”.

Nel suo caso in che modo sta rispondendo a questa crisi?
“Mi sento consumato dalle informazioni sul collasso degli Stati Uniti, ma non so quanto rappresenterò questa situazione nelle mie opere, anche se sono sicuro che sia impossibile da ignorare. La narrativa ha bisogno di un po’ di tempo prima di iniziare a raccontare la realtà”.

Oltre che scrittore è anche docente di scrittura: per un aspirante autore quanto è importante lo studio?
“Negli Usa si dibatte spesso dell’utilità delle scuole di scrittura. Un fatto interessante perché da sempre la danza, la musica e la pittura vengono insegnate. Ma con la scrittura avviene una sorta di protezione, come se si volesse credere che si tratta di un’attività magica, che non si può insegnare. Io invece credo che si possa imparare. Soprattutto se lo si fa con un gruppo di persone che credono nell’importanza del linguaggio e lo vogliono usare come strumento per fare arte”.

Ci sono autori a cui si è ispirato per il romanzo?
“Di sicuro Kafka e Borges, ma anche Kazuo Ishiguro, John Maxwell Coetzee e Angela Carter”.

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