“Quella che appare indispensabile è un’attenta riflessione sulle politiche di traduzione: non basta comprare libri scritti in lingue minoritarie, bisogna anche rispettarne la ragione d’essere. Benché lo spazio riservato alla voce dell’Altro sia ancora molto limitato, è innegabile che negli ultimi decenni sia cresciuto. È importante farlo crescere ancora, e prendere parte alla conversazione solo se si è disposti ad accettare le conseguenze della sua diversità, senza ridurlo a un panda in via di estinzione, o a una pralina dal gusto insolito”. Su ilLibraio.it la riflessione di Claudia Durastanti e Giorgia Tolfo (organizzatrici e curatrici di FILL) che fa seguito al tentativo di canone letterario del ventunesimo secolo proposto dalla rivista Vulture

Lo scorso settembre, la rivista Vulture ha pubblicato un abbozzo di canone del ventunesimo secolo. Non ha pretese di santificazione – è la testata stessa a definirlo prematuro –, e i critici che l’hanno messo insieme appartengono a una specifica nicchia culturale, quella dell’editoria middlebrow americana. Una volta accertate queste premesse, potrebbe anche non importarcene: perché un lettore svedese, palestinese o italiano dovrebbe lasciarsi scuotere da questa lista? Nel caso migliore ha letto tutti i libri citati e si sente rassicurato sul suo buon gusto, nel caso peggiore fa la figura dell’ingenuo: ancora lo meraviglia la sua marginalità?

Nonostante il suo carattere ludico e sovrappensiero, questa lista è comunque importante: per la sua straordinaria assertività, per la potenza del suo “discorso interno” e il modo in cui ci costringe a venire a patti con le geografie dimenticate nelle nostre abitudini di lettura. Scorrendola, ci siamo rese conto di aver letto quasi tutti i titoli proposti; li abbiamo scelti senza neanche pensarci troppo, in maniera automatica e irriflessiva. Ci sono pochissime sorprese, e se avessimo dovuto nominare dei libri da inserire, forse non saremmo andate a parare molto lontano. Abbiamo scoperto di somigliare a quei critici, ma non abbiamo rilevato questa somiglianza con piacere. Nell’elenco ci sono libri bellissimi, acquistati da tanti editori italiani con l’intenzione di riconoscerne il valore; parla a più di una generazione e vari gruppi demografici. È una lista che pensa molto all’Altro, ma è un Altro che parla sempre in inglese.

Al di là della speculazione filosofica su cosa sia un canone in sé, la prima considerazione da fare quando ci viene proposto è quali sono i parametri di composizione, quale il campo di scelta, chi sono i “selezionatori”. La semplice combinazione di questi dati è sufficiente a svelare cheil vero catalizzatore della lista di Vulture è il mercato editoriale americano. Nulla di grave, se non fosse che nella scelta di usare la parola canone – al suo posto si potevano mettere successi di critica, pubblico e vendita –, si cela un atto di imperialismo culturale la cui diretta conseguenza è il consolidamento dell’indissolubile relazione tra mercato e prestigio letterario. Il canone di Vulture assomiglia in maniera impressionante a un algoritmo di Google: offre l’illusione di un accesso democratico all’informazione, ma di fatto lo influenza suggerendo per primi i risultati più condivisi. Ma tanto più un utente li consulta, tanto più li rende visibili e si fa complice (forse) inconsapevole del processo di consolidamento di un sapere parziale. È sicuramente vero che il lettore, come l’utente di Google, è libero di cercare libri o risultati al di fuori di quelli proposti, ma la visibilità è un riflesso del potere e quel che non si vede scompare. Il problema è che pur ricombinandolo e modificandone la composizione, questo rimarrà sempre di fatto un “canone” e dunque un’operazione di egemonia culturale che non si manifesta unicamente nella pubblicazione di una lista di titoli, ma ha origine a monte nelle scelte degli editori di cosa pubblicare e tradurre.

Chi sconfessa il tentativo di Vulture e ammette di scegliere quasi sempre altri autori e altri libri, spesso non riesce a farlo senza sbandierare un orgoglio esoterico, da paladino di una letteratura marginale e nascosta, in cui il piacere della lettura viene spesso abdicato ad altro: alla propria identità di lettore contro il canone americano e a favore semmai di un canone europeo, quasi sempre novecentesco di default, sperimentale e nobile. Sono i libri-sacrificio (bellissimi) di László Krasznahorkai o di un dissidente interno ed esterno, l’europizzato William Vollmann. Ma all’egemonia del canone angloamericano, si risponde spesso con una forza eguale e contraria: alla letteratura media di mercato si oppone la letteratura alta non di mercato, e la letteratura di genere o artigianale che riesce a farsi tradurre non viene contemplata nella battaglia. È il peccato originale di Elena Ferrante, che pur contestando il potere sul piano tematico (mobilità sociale e lavoro, accesso all’istruzione, emancipazione dal patriarcato), viene accusata di non farlo attraverso il suo strumento principale, la lingua nazional-letteraria. Vederla prevedibilmente citata nella lista di Vulture non appaga il lettore in cerca di giustizia per tutti i libri tradotti che restano invisibili. Non basta tradurre libri fuori dal canone americano: bisogna tradurre anche i libri giusti, quelli che si fanno portatori di una cultura e di una visione ritenuta anti-retorica, che non sfrutta la mitologia esotica di una nazione. Non basta assalire il canone dominante con tutte le armi a disposizione, bisogna farlo con le armi migliori. Poco importa se è proprio l’idea di canone a risultare, nel ventunesimo secolo, quasi impronunciabile, e se queste posizioni antagoniste non fanno che rafforzarne la legittimità.

Nella battaglia tra canoni, c’è l’America, c’è l’Inghilterra, e poi c’è tutto il “resto”.

A prescindere dalla sua provenienza geografica, nelle classifiche di qualità e nei premi questo resto subalterno viene confinato nell’ambiguacategoria di “literature in translation”, parente stretta della “letteratura femminile” nostrana. Per averne un esempio, basta guardare la lista Fresh Voices del Guardian sulle nuovi voci letterarie da tenere d’occhio, in cui gli autori non anglofoni spiccano come i panda. Negli Stati Uniti e in Inghilterra, liste, premi e tentativi di canonizzazione hanno una vera e propria fissazione per la “literature in translation”, o “world literature”, questo ammasso indistinto di alterità. È come se fosse una confezione di praline assortite da assaporare e gustare in salotto: avranno pure consistenza e ripieni diversi, ma stanno pur sempre nella stessa confezione, un box in cui la saga familiare di Patria di Aramburu potrebbe tranquillamente svolgersi in Sardegna o in Grecia. In realtà, nel mercato editoriale italiano la categoria di “letteratura in traduzione” non esiste, ed è un bene: senza ignorare la dominanza assoluta della letteratura anglofona, prevale perlomeno la tendenza a riconoscerne l’origine nazionale, preferendo parlare di letteratura americana o inglese piuttosto che generare un calderone dove Ghana e Vietnam sono interscambiabili.

La categoria di “world literature” è paradigmatica perché pur aspirando alla protezione della diversità letteraria e linguistica, pur volendo arginare le tendenze omogeneizzanti di una letteratura dominante, di fatto finisce per essere una realtà definita e usata dal mercato per dare l’illusione di un accesso democratico e cosmopolita alle letterature del mondo. Quel che spesso entra in questo scaffale editoriale è una selezione di testi scelti in base a parametri commerciali, diversi ma parzialmente riconoscibili, che soddisfino il palato del lettore senza confonderlo troppo. E per non confonderlo le scelte ricadono spesso su libri meno sperimentali, si pubblicano traduzioni normalizzanti in cui la differenza viene ridotta a mera sfumatura etnica.

Quando Tilted Axis Press presenta la “Elena Ferrante del Bengala” e quando America is not the heart di Elaine Castillo (acquistato da Solferino) vende i propri diritti all’estero per lo stesso motivo – ecco la “Elena Ferrante delle Filippine!” (per la precisazione Castillo è filippino-americana) –, ci ritroviamo nel paradosso di una subalternità mediata da un’altra subalternità. Ma diverso + diverso non fa più diverso, fa intercambiabile. Contribuisce a creare un macro-mondo polacco, italiano, spagnolo e coreano in cui l’identità è la lingua inglese, e l’essere letterariamente valido coincide con l’essere facilmente traducibile. Ovviamente tanto dipende anche dalle scelte di traduzione fatte sul singolo testo, uno dei campi sanguinolenti dove si gioca questa partita: all’editore straniero nella maggior parte dei casi interessa l’Italia nella sua “italianness”, ma non l’italiano. Non è un appiattimento promulgato solo dagli anglosassoni: anche in Italia gli editori uniformano i testi ricevuti in base a criteri di vendibilità. La traduzione della Vegetariana di Han Kang in inglese avrà generato scandalo, ma il cinismo accentratore manifestato dal suo editore è diffusissimo.

Tutti questi discorsi non sono più una prerogativa degli studi postcoloniali, ma fanno parte del chiacchiericcio editoriale di massa. Ragion per cui una lista come quella di Vulture forse ce la saremmo aspettata cinque anni fa, ma non oggi: per chi monitora le uscite letterarie in America e Inghilterra e l’esaltazione che si crea attorno a certi libri, c’era l’illusione che editori devoti alle traduzioni come Fitzcarraldo, New Directions e NYRB avessero smosso qualcosa, combinando filantropia, gusto e mercato. Del resto non siamo negli anni di The Believer, ma quelli di Freeman’s, basta dare un’occhiata all’elenco di autori in Scrittori dal futuro per capire qual è la direzione condivisa.

A entrare in una libreria virtuale di Londra, a gravitare nella sua Twittersfera, pare che Olga Tokarczuk, Han Kang e Mathias Enard stiano sovvertendo davvero le abitudini di lettura. Ma la lista di Vulture dimostra che c’è ancora una forte pregiudiziale rispetto a questo mondo in traduzione sempre più recensito e premiato. Forse anche perché è commercialmente meno rilevante di quanto ci viene fatto credere: i numeri di questi editori restano risibili rispetto al resto, ed è bene ridimensionare le bolle nostrane e altrui. Uno dei libri più belli delle ultime annate è Ghachar Ghochar di Vivek Shanbhag, uscito in Italia per Neri Pozza, un testo checoviano ma con uno spirito modernissimo, che merita discorsi sulla lenta sovversione all’interno della letteratura, una sovversione non facilmente propagandabile (anche se si tratta di un libro leggibilissimo), come li merita Rachel Cusk. Ma il libro si chiama Ghachar Ghochar, e per diventare rilevante deve fare il triplo degli sforzi.

Il tema reale è: come si crea interesse, e non solo cura, attorno a certi libri?

Qui non si tratta solo di proteggere la varietà del mondo, ma di mettere in connessione dei fili elettrici affinché questa varietà possa essere popolare, interessante e comune senza essere troppo assimilabile. Qualcosa che anche se resta indigesto può essere amato e nominato e riverberarsi in un palinsesto mutevole e disordinato di scelte. Un palinsesto al cui interno esistono mille canoni bastardi e minori, in cui i libri-sacrificio convivono con libri artigianali e dalle ambizioni meno monumentali. Mettere in comune questi libri perché sono scritti nella stessa lingua e hanno stessa cittadinanza sulla carta può essere un’operazione goffissima, ma difendere queste letterature anche in base al loro patrimonio linguistico ha senso: Elaine Castillo fa discorsi molto specifici sull’uso del filippino nel suo lavoro, per esempio, e l’autrice scrive direttamente in inglese. Così come ha senso e va incoraggiata l’esistenza di autori che prendono tutti questi problemi e li risolvono nel testo e non in un manifesto.

Ritornando quindi alla questione iniziale: cosa rappresenta il tentativo di canone fatto da Vulture? Posto che in un mercato editoriale si devono fare i conti con le vendite e posto che non tutti gli editori possano combinare cultura e bilancio (anche se sarebbe fantastico), quella che appare indispensabile è un’attenta riflessione sulle politiche di traduzione: non basta comprare libri scritti in lingue minoritarie, bisogna anche rispettarne la ragione d’essere. Benché lo spazio riservato alla voce dell’Altro sia ancora molto limitato, è innegabile che negli ultimi decenni sia cresciuto. È importante farlo crescere ancora, e prendere parte alla conversazione solo se si è disposti ad accettare le conseguenze dell’alterità, senza ridurlo a un panda in via di estinzione, o a una pralina dal gusto insolito.

 

LE AUTRICI – Claudia Durastanti, scrittrice e traduttrice, ha pubblicato i romanzi Un giorno verrò a lanciare sassi alla tua finestra (Marsilio, 2010), A Chloe, per le ragioni sbagliate (Marsilio, 2013) e Cleopatra va in prigione (Minimum fax, 2016). Giorgia Tolfo lavora per Bloomsbury Publishing. Entrambe le autrici organizzano e curano FILL – Festival of Italian Literature in London, la cui seconda edizione è in programma il 27 e 28 ottobre nelle sale del Coronet Theatre a Notting Hill.

 

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