“Come belve feroci”, il nuovo libro di Giuse Alemanno, è un romanzo dalle venature hard-core, che somiglia a un film di Tarantino raccontato però dalla penna di Verga… – Su ilLibraio.it un estratto

Oppido Messapico, nella Puglia più profonda Costantino Ròchira e i suoi scagnozzi hanno deciso di massacrare la famiglia Sarmenta. C’entrano questioni economiche, e c’entra la ’ndrangheta. Ma il piano riesce solo a metà. Per una fortunata coincidenza riesce a salvarsi il figlio dei Sarmenta, Massimo detto Mattanza, un ragazzo problematico e ferocissimo, e così pure la fanno franca i suoi zii e suo cugino Santo. Tutti insieme lasciano il paese a bordo di una Fiat Regata, ma non prima di aver ritirato tutti i soldi di famiglia e di aver inscenato la propria sparizione. Il lungo viaggio li porta in Val Camonica, dove vengono accolti da un vecchio amico e compaesano, Giovanni Argento, e dove Santo e Mattanza cominciano a progettare la loro vendetta.

Come belve feroci (Las Vegas Edizioni), il nuovo libro dello scrittore manduriano Giuse Alemanno, è un romanzo crudo, dalle venature hard-core, che non risparmia niente e nessuno, che somiglia a un film di Tarantino raccontato però dalla penna di Verga.

Come belve feroci

Su ilLibraio.it, per gentile concessione della casa editrice, proponiamo un estratto:

Le martellate furono guida.

Paolo Sarmenta seguì la traccia sonora per trovare suo figlio Massimo, rimasto sordo ai richiami per il pranzo della domenica. I tonfi cadenzati lo portarono a oltrepassare il piazzale della masseria, il ricovero delle pecore, la tettoia sotto la quale c’era la gabbia delle galline e l’orto circondato dagli arbusti di rosmarino, sempre chiamando – esasperato – chi mai rispondeva.

Infine lo vide, imboccando il sentiero che portava alle vigne: era intento a inchiodare qualcosa a un albero di eucalipto, silenzioso, serio e concentrato a suo costume, come da sempre evidenziavano i professori ai colloquiscolastici anche di quell’anno, l’ultimo del liceo. La rabbia figlia delle mancate risposte scemò davanti alla curiosità di cosa Massimo combinasse. Paolo deviò la sua direzione di marcia fino a che non poté scoprire, non visto, cosa Massimo stesse inchiodando.

La gallina dall’orbita sfondata da un chiodo di dieci centimetri ancora sbatteva contro la corteccia dell’eucalipto in un frullio di piume e sangue. Accanto a essa, in fila ordinata, lucertole sventrate messe a seccare e due rospi dalle interiora pendenti.

Il sole spietato di Oppido Messapico fu testimone della rabbia stupita di Paolo Sarmenta. Corse verso quel figlio quasi maggiorenne, gli strappò il martello di mano infilandoselo nella cintura dei pantaloni, gli affibbiò uno schiaffone in viso, lo prese per i capelli e – ora tirandolo, ora spingendolo – lo trascinò verso la masseria. Avvicinandosi non faceva che ripetere, gridando ferito al punto che le lacrime salate gli arrivavano in gola: «Enza, Enza, lo ha fatto di nuovo, lo ha fatto di nuovo.»

Da Massimo nessuna reazione.

Vittorio Sarmenta si preparò a uscire,spingendo a mano la sua Ape Car fuori dal garage adiacente al deposito carburanti, che fungeva anche da officina di pronto intervento, della sua masseria.

«Papà, mi porti con te?»

«No, Santo. Niente caccia. Devo passare prima dallo zio Paolo,ché è domenica, e poi mi devo fare un giro prima che mangiamo, ché se vedo la volpe che si è fottute le galline nostre le racconto una cosa all’orecchio.»

La carezza al fucile che portava a spalla dettagliava la natura delle parole che Vittorio avrebbe voluto confidare alla volpe.

«E dài, portami papà…oggi non c’è scuola e posso stare un poco con Massimo. Così, quando ti sbrighi, passi dagli zii, mi prendi e torniamo a casa!»

«Lascia stare, Santo. Non è cosa. E poi… stai tutti i santi giorni con Massimo! Non è che mi diventi strano come lui, no? Poi dagli zii andiamo con la mamma, non mi piace che rimane sola qua in campagna. Almeno con te tiene una voce.»

«Vabbè, però poi da Massimo andiamo veramente, sa?»

«Promesso.»

Vittorio Sarmenta infilò il sovrapposto Beretta nella cabina dell’Ape Car, contorcendosi entrò anche lui, mise in moto e partì verso la masseria del fratello.

giuse alemanno

Costantino Ròchira allisciò la cravatta, assestò il nodo e dedicò il braccio alla sua signora.

L’“Andate in pace” aveva chiuso la messa domenicale.

Fino all’uscita della Chiesa Madre fu omaggiato da saluti di circostanza e occhiate di rispetto e timore. Rare quelle di sdegno. Sul sagrato un tale gli si avvicinò, supplicandolo di ricordarsi di intercedere per una situazione che lo riguardava, poi ancora saluti, condiscendenze espresse con una mossa del capo e cheti sorrisi.

Costantino arrivò vicino a due macchine che attendevano insieme a tre uomini.

«Stefano, tu porta a casa mia moglie, ma prima passa a prendere una guantiera di dolci dalla pasticceria di Franco Pittigna.»

Poi si rivolse agli altri due: «Rocco, Salvatore… andiamo a fare quel servizio. Roba di cinque minuti. È domenica per tutti, no?»

Infine alla moglie: «Ada, vai a casa, prepara e aspettami. Torno presto. Ah, passando con Stefano, pigliami due noccioline da Ciccio Rifaldo. Controlla che non siano rammollite. Compra pure due pistacchi e due… come si chiamano, Salvato’?»

«Anacardi, Costanti’!»

«Giusto, anacardi! Vai, vai, ci vediamo dopo.»

La 127 nuova di concessionaria, guidata da Stefano, portò la signora Ada prima verso dove si sarebbero soddisfatti i capricci alimentari del marito e poi verso casa. Costantino Ròchira, invece, salì sul sedile posteriore della sua Audi 80 già in moto.

«Salvato’, li hai portati i giornali?»

«Accanto a te stanno.»

Costantino Ròchira sollevò con prudenza le copie del Tempo e della Gazzetta dello Sport fresche di edicola. Sotto c’erano due lupare che avevano la febbre.

«Bene, andiamo a ricordare a Paolo Sarmenta che è domenica anche per gli infami e per i cornuti.»

Paolo Sarmenta chiuse Massimo nella gabbia delle galline dopo avergli fatto una faccia di schiaffi. Gli aveva ripetuto cento volte che non voleva stare a tavola con una bestia, “anzi, peggio di una bestia, una bestia certe cose non le fa”. Massimo incassava ceffoni e manrovesci in silenzio, senza opporre nessuna difesa, senza cercare il riparo d’un braccio alzato, ignorando l’istinto di preservarsi dal dolore.

Un palo messo di traverso assicurò che la porta a rete del pollaio non potesse essere aperta dall’interno. Paolo tornò verso la masseria sacramentando. Salì una corta rampa di scale ed entrò in cucina, appoggiò il martello che portava incastrato nella cintura sul tavolo e crollò su una sedia.

Gli occhi semichiusi di Massimo, a causa dei progressivi gonfiori provocati dalle mazzate paterne, si accorsero che dalla prigione delle galline riuscivano a vedere mamma Enza a mezzobusto che apparecchiava la tavola per due.

 

Vittorio Sarmenta era ormai nei pressi della masseria di suo fratello Paolo, a bordo della sua Ape Car canterellante. A un passo dal cancello d’entrata una volpe tagliò la strada all’improbabile tre ruote.

«Figlia di puttana!»

Vittorio deviò con le brusche il cammino del piccolo motocarro, lo fermò al volo dietro un macchione inespugnabile di more selvatiche e olivastri selvaggi e scese di corsa, fucile alle mani.

 

Costantino Ròchira e gli altri occupanti dell’Audi 80 passarono pochi istanti dopo. Nessuno vide il piccolo mezzo a motore abbandonato dietro un paravento di arbusti intrecciati. Nessuno vide Vittorio accumulare frustrazione, incapace di ammazzare una volpe più furba di lui. Nessuno vide tre uomini che avevano una missione di morte da soddisfare e si avvicinavano silenti a una cucina in cui una coppia pranzava.

 

Paolo ed Enza, di domenica, si trattavano bene.

Le minuscole crocchette di patate profumate di menta, aglio e pecorino, affiancate da polpettine di carne di cavallo e da pettule ripiene di un pezzetto di cavolfiore lesso, o di mezzo pomodoro sott’olio, o di un cappero, o di un frammento di sarda salata, ancora profumavano di frittura.

«Allora Massimo lo ha fatto ancora…»

«Sì, Enza. Non so che gli prende a quel figlio nostro. Bisognerebbe farlo vedere da qualcuno, da un dottore… che ne so.»

«E che gli diciamo? Che ammazza e sevizia gli animali? Uno che ammazza gli animali è capace di ammazzare anche le persone.»

Le fritture d’antipasto finirono presto. Nei piatti larghi e fondi Enza mise una noce di ricotta forte, acida, catramosa e giallastra, e la sciolse mescolandola al sugo di pomodoro. Poi su questa salsa per palati duri versò le orecchiette e i maccheroncini, lessati al dente, che aveva preparato al mattino, spolverò tutto con del pecorino stagionato, e infine versò altro sugo di pomodoro.

«Dici che farlo stare nella gabbia delle galline serve a qualche cosa?»

«Altre volte ha funzionato. Almeno… per un po’ ha funzionato.»

«E Massimo non parla? Non dice niente?»

«Manco una parola, Enza. Muto.»

Finita la pasta fatta in casa, nello stesso piatto Enza servì dei pezzetti di cavallo al sugo, cotti per ore con cipolla, vino bianco, prezzemolo, rosmarino, peperoncino, aglio, olio, sedano e passata di pomodoro. Per contorno aveva preparato dei peperoni gratinati al forno, con olive nere, capperi, pepe e mollica di pane mescolata all’origano. Per il pranzo della domenica una bottiglia di Primitivo di Manduria a stento bastava.

Massimo, dalla gabbia, li guardava dalla vita in su, con lo stomaco che gli si torceva dalla fame.

«Adesso prendo il dolce…»

«Brava, Enza! Prendilo e vediamo se è buono!»

Costantino Ròchira.

Dietro di lui due lupare malate.

 

Vittorio desistette. La volpe chissà dove si era cacciata. Lasciò l’Ape Car parcheggiata dov’era ed entrò a piedi, fucile in spalla, nella masseria di suo fratello Paolo.

 

Costantino Ròchira insistette.

«Dài Enza, prendilo ’sto dolce.»

Enza, tremando sotto il tiro di una lupara – visto che l’altra curava Paolo –, prese da una vecchia madia una torta di pasta frolla ripiena di crema e amarene e la pose in tavola.

«Rocco, sistema la signora come ti ho spiegato.»

Un colpo di mano spazzò piatti e bicchieri obbedendo al comando di Costantino. Rocco sistemò prona Enza, dopo averle affibbiato una sberla in faccia al primo cenno di resistenza, legandole le gambe robuste a quelle legnose del tavolo.

«Bloccale anche le mani, che non voglio problemi.»

 

Massimo, dalla gabbia delle galline, prima sentì un gran fracasso di piatti rotti, poi vide uno sconosciuto che prendeva per capelli sua madre e l’abbatteva.

Infine sentì un rumore di passi.

 

Costantino Ròchira si assicurò.

«La signora è apposto? E mo’ tenetemi fermo questo pezzo di merda.»

Rocco e Salvatore attanagliarono Paolo Sarmenta. Costantino Ròchira tirò fuori dalla tasca della giacca un coltello a scatto, click, e una lama lunga e sottile apparve.

«Rocco, dove lo teniamo il fegato: a destra o a sinistra?»

«A destra.»

«Bravo. Adesso, caro Paolo, ti infilerò quattro dita d’acciaio nel fegato, piano,piano, così non mi crepi subito. Poi mi trombo la signora e poi vi ammazzo a tutti e due. Così impari a fare l’infame, il cornuto che fotte gli amici.»

Costantino, parlando, agì per come aveva detto. Le urla di Paolo furono la colonna sonora del manico di madreperla che gli spuntava dall’addome.

«Salvato’, alza la gonna della signora e abbassale le mutande. Anzi tagliale, che un ponte di stoffa tra le cosce mi dà fastidio, e preparami.»

Lui eseguì. Costantino Ròchira se lo tirò fuori, Salvatore prese a sbocchinarlo, a palpeggiargli i coglioni con una mano e a sfiorargli il buco del culo con l’altra, fino a quando non gli procurò un’erezione ragguardevole.

«Va bene così, Costanti’?»

«Apposto Salvato’. Mo’ levati, che la signora sta aspettando.»

«A secco, Costanti’?»

«Salvato’, mi hai fatto venire un cazzo che la posso arare.»

 

Massimo, dalla sua postazione avicola, vide solo la parte alta di uno sconosciuto che ondeggiava, ritmico, lì dove sapeva fosse il tavolo della cucina. In contemporanea vide suo zio Vittorio, che camminava armato e sciolto verso la masseria. Una manata alla rete delle galline bastò per richiamare la sua attenzione. Un dito premuto sulle labbra chiuse bastò a suggerirgli il silenzio.

Sottovoce, teso, Vittorio chiese:«Che ci fai qui dentro? Che ti è successo in faccia?». Ma erano domande di cui conosceva già la risposta, visto che Paolo gli aveva raccontato il motivo della saltuaria reclusione del figlio nella gabbia delle galline.

Massimo portò, con un dito indicatore, lo sguardo di suo zio verso la finestra della cucina.

«Cristo! Costantino Ròchira!»

Vittorio imbracciò il fucile.

«Da qua è difficile e poi non sta da solo. Giriamo ed entriamo da dietro.»

Vittorio riconobbe che il nipote aveva ragione e lo liberò dalla prigione ruspante.

 

Costantino Ròchira rallentò il ritmo della pecorina per parlare.

«Paolo, te lo ricordi quando stavamo in galera insieme? Quel periodo che ci stava pure quel cesso di tuo fratello Vittorio… te lo ricordi?»

Paolo Sarmenta emetteva dalla bocca delle bolle di saliva sanguinosa accompagnate da un suono gutturale, le mani in grembo a corolla dell’impugnatura del coltello.

«Enza, te lo ha mai raccontato che cosa abbiamo combinato insieme? Di quanto veleno mi ha fatto ingoiare?»

La donna alternava brevi note acute al pianto, bambola rotta di lamenti.

«No, eh…? Immaginavo. Allora anche del fatto di Peppe Misuraca la signora non sa niente. Allora, Enza mia, oltre a ’sto cazzo senti pure questa bella storia: Peppe Misuraca lo chiamavano “Ciccio Bello” e apparteneva ai Mariano. Stava sempre elegante, all’ultima moda, ma si sapeva comportare. Capitò che lo chiusero, perché lo pigliarono dopo un’azione maledetta che ci morì sparato uno sbirro. Ciccio Bello non era adatto alla galera, un magistrato lo capì e lo mise in condizione che o cantava o lo faceva scoppiare in casanza. E lui cantò e fu il disastro per i Mariano. Il fatto si seppe perché il magistrato fu bravo a promettere, ma non a mantenere il silenzio sulla cantata di Ciccio Bello.Siccome io, Paolo e Vittorio stavamo nella stessa galera di Ciccio Bello, i Mariano ci chiesero un favore visto che noi, con loro, stavamo bene. E li tenemmo contenti, i Mariano… non è vero, Paolo? Enza mia…»

E giù un gran colpo di reni che la fece sussultare.

«Paolo lo sa molto bene che gli tocca agli infami e ai cornuti.»

Costantino si sfilò, mostrando un cazzo a mezzo entusiasmo lucido di umori.

«Salvato’, ti ricordi come era secca? Guarda come le è piaciuto, alla signora! E mo’ prepariamo il gran finale. Tieniti pronto, Rocco. Salvato’, aiutami. Paolo… tu il gioco lo conosci.»

Salvatore prese il piccolo orcio pieno d’olio, uso a condire l’insalata, e versò a filo il prezioso contenuto sul coccige di Enza, in modo da ungere la discesa. La donna prese ad agitarsi e a gridare, tanto da guadagnarsi un colpo di calcio di lupara in testa da Rocco.

«Salvato’, fammelo tornare d’acciaio che mo’ viene il bello!»

Salvatore, devoto, si applicò.

«Rocco, tu stai sempre all’erta, sa? Non sbagliare il momento.»

«Tranquillo, Costanti’. Quando dici tu è fatto.»

Salvatore, allora, allargò le natiche di Enza e Costantino, a fatica, se la inculò.

«Strettina di culo, la signora! Paolo… te lo ricordi Peppe Misuraca? Te lo ricordi Ciccio Bello?»

Costantino Ròchira ansimava perché l’orgasmo era vicino.

«Mentre io me lo inculavo, tuo fratello lo teneva fermo e tu lo tenevi per capelli, come sta facendo adesso Rocco con la Enza… e sì, Enza mia, perché questa bestia di marito che tieni anche in galera ti è stato fedele. Paolo, te lo ricordi? Quando ti ho dato il segno che stavo venendo, tu gli hai tagliato la gola a Ciccio Bello, proprio come… Adesso! Adesso! Vai, Rocco! Vai! Vai!»

Rocco sgozzò Enza, d’un colpo.

Gli spasmi della morte regalarono a Costantino Ròchira il più devastante degli orgasmi. Godette di ogni contrazione finale. Sembrò morisse anche lui. Attese, fino all’ultimo, poi tirò fuori il cazzo dalla carne morta e si guardò.

«Sarà la terza… no, la quarta volta di questo mestiere ed è sempre una cosa micidiale. Sto pulito, meno male. Con Ciccio Bello non andò così, spruzzò e mi combinai a schifo. Quante risate ti sei fatto con tuo fratello per questo… ti ricordi, Paolo? Tu, Vittorio e tutti quelli a cui l’avete saputo raccontare. Che figura di merda mi avete fatto fare…»

Si ricompose.

«Beh, chiudiamo la partita con questo animale. Salvato’…»

Salvatore non lo fece neanche finire di parlare, appoggiò le canne della sua lupara all’attaccatura del naso di Paolo e sparò. Sangue, briciole d’osso e poltiglia di cervello riempirono la cucina.

«Salvato’! Porca troia! Il vestito! Non potevi aspettare un attimo, mannaggia quanto ne tieni la razza?»

(continua in libreria…)

 

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