“Da piccolo, la mia iperattività era un problema anche per gli altri. Per i miei coetanei ero un diverso. Smisero di invitarmi alle feste, spaccavo sempre qualcosa. Persino i miei faticavano a starmi dietro. Così mi isolavo, conoscevo bene la solitudine, la fatica di farsi accettare nonostante tutto. Ecco perché Dostoevskij, perché David Foster Wallace. Non è questione di stile o di forma, i loro romanzi sono ponti tra autore e lettore. Un modo di dire “Sono qui, ci sei anche tu. Adesso ne parliamo”. – Su ilLibraio.it la riflessione di Emanuele Altissimo, in libreria con il suo romanzo d’esordio, “Luce rubata al giorno”

Due parole che ho sentito di continuo tra i sei e i dodici anni: Černobyl’ e Dostoevskij.

La prima, secondo i miei genitori, era responsabile della mia iperattività. La seconda stava sempre in bocca a mio padre. Nei mesi dopo il disastro della centrale ucraina, i medici raccomandavano alle donne incinte di evitare alcuni cibi – la contaminazione viaggiava rapida. Ma mia madre non sapeva di essere incinta. Mangiò tutti i cibi sconsigliati e generò un bambino incapace di stare fermo, sempre irrequieto, pieno di tic. I miei ne parlavano tutto il giorno, esasperati. Mi sentivo speciale – qualsiasi bambino vuole attenzioni, nel bene o nel male. Ma poi gli anni passarono, non riuscivo a concentrarmi, a stare seduto al banco di scuola. Leggevo e mi distraevo. Non ascoltavo, dovevo fare ore e ore di sport per calmarmi.

Quando non parlava di me, mio padre parlava di Dostoevskij. Sono cresciuto pensando fosse un membro della famiglia, uno zio straniero. In parte è così. Conoscevo la trama di Delitto e Castigo ancora prima di Pinocchio, sapevo della falsa esecuzione, della sua epilessia, della reclusione in Siberia. Ma riuscii a leggerlo solo dopo i sedici anni. Fu il primo libro che divorai dall’inizio alla fine – in piedi. Quel romanzo, e poi I fratelli Karamazov, L’adolescente e I demoni, mi parlava come una persona vera. Era febbrile, vorace, irrequieto come lo ero io. Scoprii che leggere significava muoversi.

E che Dostoevskij faceva qualcosa che avrei voluto fare anch’io, un giorno. Negli anni dell’Università camminavo tanto. Lo facevo dopo le lezioni, per sfogare le ore seduto. Facevo avanti e indietro lungo via Po e mi fermavo solo davanti alle bancarelle dei libri usati. Fu lì che conobbi Thomas Pynchon, Gaddis, Barth e DeLillo. Tutti autori che mi ricordavano Dostoevskij per come usavano la scrittura: la stessa febbrile, insaziabile pirotecnica.

Anche loro non riuscivano a stare seduti?

Poi è arrivato David Foster Wallace – Dave, da qui in avanti. L’ho incontrato per caso all’esame ECDL. Bisognava applicare gli strumenti Word su un brano tratto da Considera l’aragosta.

Chi era, David Foster Wallace? Ma soprattutto, chi era quell’esaminatore geniale che usava uno scrittore così per le prove della Patente Europea? Vorrei trovarlo e stringergli la mano. Dopo l’esame sono andato in libreria. Ho comprato La scopa del sistema e da lì tra me e Dave è iniziato un dialogo che dura da otto anni.

È vero, ci sono stati Flannery O’Connor, Carver, D’Ambrosio, Amy Hempel, Sounders, Yates, Tobias Wolff, Andre Dubus, Bret Easton Ellis. Ma Dave e Fëdor mi hanno insegnato una cosa. Da piccolo, la mia iperattività era un problema anche per gli altri. Ora so che Černobyl’ non c’entra niente, mio padre lo tirava in ballo per trovare la radice del problema all’esterno. Per i miei coetanei ero un diverso. Smisero di invitarmi alle feste, spaccavo sempre qualcosa. Persino i miei faticavano a starmi dietro. Così mi isolavo, conoscevo bene la solitudine, la fatica di farsi accettare nonostante tutto. Ecco perché Fëdor, perché Dave. Non è questione di stile o di forma, i loro romanzi sono ponti tra autore e lettore. Un modo di dire “Sono qui, ci sei anche tu. Adesso ne parliamo.”

Quello che conta, alla fine, è la battaglia contro la solitudine.

Mai come ora sono convinto che un libro possa avvicinarci davvero agli altri. E quelli di Wallace e Dostoevskij sono come feste dove nessuno fa gli anni, ma tutti sono festeggiati.

luce rubata al giorno emanuele altissimo

L’AUTORE E IL LIBRO – Emanuele Altissimo è nato nel 1987 a Torino, dove si è laureato con una tesi su David Foster Wallace e ha frequentato il biennio in scrittura creativa della Scuola Holden. Luce rubata al giorno (Bompiani) è il suo romanzo d’esordio e racconta la storia di due fratelli e dell’estate che segna per sempre le loro esistenze. 

Diego, Olmo e il nonno sono in montagna, nella baita comprata dai genitori prima di morire. La speranza è che quei luoghi portino serenità nell’animo di Diego, il fratello maggiore, eternamente irrequieto. Ma appena si alza il vento le seggiovie tremano e le nubi proiettano sui valloni ombre profonde. Solo Olmo capisce che Diego sta scivolando in un universo dove non si può raggiungerlo, un delirio che sembra crescere fino a toccare il cielo. E darebbe tutto ciò che ha per salvarlo. In ingegneria si parla di tensione ammissibile: il punto massimo di sforzo a cui si può sottoporre un edificio prima che collassi. L’Empire State Building, per esempio, sopravvisse all’urto di un Bomber B-25. Giorno dopo giorno, Olmo costruisce proprio il modellino dell’Empire State: con infinita pazienza, consapevole che la forza dell’edificio sta nella posa di ogni singolo mattoncino. Ma qual è la tensione ammissibile per una famiglia, per l’amore che tiene insieme le persone?

I miei personaggi me li sono immaginati come dei giganti“, scrive l’autore. “Diego è un gigante incapace di farsi bastare il suo mondo, che sogna di scalare le montagne e prendersi il cielo. Ma soprattutto lo sono Olmo e il nonno. Giganti sono coloro che guardano in faccia il dolore senza più scuse. Che accettano dolori per i quali non c’è consolazione”.

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