“Addio” è un romanzo-verità, un viaggio nel mondo del lavoro in cambiamento, ambientato nel Sulcis-Iglesiente, fra miniere e operai. Una terra dove risaltano più forti tutte le contraddizioni del presente, come quella fra salute e lavoro – Su ilLibraio.it un estratto

Addio (Chiarelettere) di Angelo Ferracuti, è un romanzo sulla nostra identità perduta, sul lavoro come valore fondante che rinnova una tradizione che sembrava ormai persa, quella di una letteratura civile che racconta la vita, le lotte e il sangue versato dai lavoratori.

Angelo Ferracuti, non nuovo al genere del romanzo-verità in presa diretta sulla società in cambiamento, ambienta il nuovo libro in una zona della Sardegna che in passato dava lavoro a migliaia di persone e che adesso è praticamente abbandonata. Siamo nel Sulcis-Iglesiente, terra di miniere e dell’epica operaia, e ora provincia più povera d’Europa con i suoi 30.000 disoccupati su 130.000 abitanti e 40.000 pensionati spesso usciti dal mondo del lavoro dopo aver contratto malattie terribili come la silicosi.

Ecco la crisi di un mondo in disfacimento, legata a un modello di organizzazione del lavoro novecentesco e ormai ossidato come il ferro dei castelli degli ascensori abbandonati di Carbonia.

Ferracuti viaggia tra queste terre avvelenate e incontra una popolazione vinta, malata, povera ma piena di dignità, in una condizione che riassume tutte le contraddizioni del presente, come quella tra salute e lavoro, mentre le multinazionali dell’alluminio delocalizzano in Islanda e in Arabia Saudita. Qui è finito il Novecento ed è iniziato non si sa che cosa. Rimane la nostalgia e un buco nero a tratti rischiarato dall’assistenza dello Stato che tutti aspettano come unica salvezza.

Per gentile concessione dell’editore, su ilLibraio.it pubblichiamo un estratto:

Era da un po’ di tempo che avevo intenzione di scrivere un lungo reportage narrativo sulla crisi che tutti stavamo vivendo, e all’inizio avevo pensato di fare un «Viaggio in Italia» nei luoghi del disagio e della desertificazione industriale. Il racconto dominante allora era quello retorico dei produttori, cioè raccontare chi ce l’aveva fatta o ce la stava facendo, e andava molto di moda questa parola, resilienza, cioè capacità di resistere e reinventarsi all’ineluttabilità delle dinamiche del neoliberismo, la formazione assistenziale, mentre io volevo raccontare, come nella migliore tradizione letteraria di impegno civile, proprio chi non ce l’aveva fatta e stava affondando, chi non arrivava alla fine del mese, lo stato di apnea sociale invisibile. Capii presto che la mia impresa sarebbe stata troppo dispendiosa e dispersiva, poco praticabile, e per un certo periodo abbandonai l’idea quasi del tutto. Ma i libri sono dentro agli autori ancora prima di essere scritti, e continuavo a pensarci ossessivamente, cercando una strategia per realizzare il mio progetto e tornare presto alla carica. Ripensavo a quella frase illuminante di Pier Paolo Pasolini detta nel corso della sua ultima intervista a Furio Colombo prima di essere barbaramente ucciso: «Smettete di parlarmi del mare mentre siamo in montagna». Mi sembrava l’unica cosa da raccontare, anche una forma di ribellione nei confronti del  pensiero dominante, quello del marketing che chiamano storytelling, che artatamente racconta sempre un’altra storia, eludendo qualsiasi conflitto, che è sempre tra capitale e lavoro. «Hai mai visto quelle marionette che fanno tanto ridere i bambini perché hanno il corpo voltato da una parte e la testa dalla parte opposta? Mi pare che Totò riuscisse in un trucco del genere. Ecco, io vedo così la bella truppa di intellettuali, sociologi, esperti e giornalisti delle intenzioni più nobili, le cose succedono qui e la testa guarda di là» diceva ancora il Corsaro. Mi sembra di vivere in un tempo dove moltissimi spostano lo sguardo per convenienza e per comodità proprio come quella marionetta. In fondo le cose si possono mettere a fuoco anche in un luogo solo, in un bit antropologico, piccolo o grande non importa, al sud, al centro, al nord di un paese, c’è tutto ovunque, basta saperlo cercare, quindi dovevo scegliere un luogo solo e farlo diventare simbolico. Fu in quel momento, credo, che mi tornarono in mente Carbonia e il Sulcis-Iglesiente e cominciai a fare delle ricerche, e poi a partire. Questo è il mio modo, cioè tornare nei luoghi moltissime volte, una lenta e progressiva messa a fuoco. Cominciai come sempre a guardare i film e documentari girati in quelle terre, dai libri, m’imbattei nella storia di questa città nata in un anno e del suo carbone povero, m’appassionarono subito le sue cicliche crisi, così come gli abitanti di una cittadina molto popolare, fatta di ceti bassi e priva di borghesia dove c’è ancora quello che una volta si chiamava «il popolo». Per me tornare nei luoghi significa sempre colmare qualcosa che è a metà tra la curiosità antropologica e lo studio, cercare di capire perché un luogo si è sviluppato in un certo modo e quale significato assume nel presente, ma cerco anche un rapporto profondamente corporale, raccontando ai modi del flâneur, non da esperto. A Carbonia e dintorni capii che c’era tutta la storia di un secolo, che valeva la pena ricomporre e rinominare, c’erano  ancora i resti di un’epica memorabile, quella del Germinale di Zola, della cittadina mineraria che visitò Orwell nel nord dell’Inghilterra, Wigan Pier, il villaggio belga del Borinage dove il giovane Van Gogh abitò, come c’era ancora una classe operaia irriducibile che saliva per protesta sui silos, metteva in moto una mobilitazione permanente, bloccava i traghetti e gli aeroporti. Coesa, solidale, proprio come quella raccontata da Cronin in alcuni suoi libri memorabili.

Libri come questo non hanno un inizio e una fine, prendono forma strada facendo, e quella forma cambia inevitabilmente molte volte. Quindi l’inizio fu il racconto del passato, ricollegare il presente a quell’epica, il sacrificio e il dolore di questa gente, l’emancipazione e la lotta, i primi scioperi repressi nel sangue; poi ciò che restava di quella classe operaia, frantumata e massacrata dalla chiusura delle miniere e dal declino del polo industriale dell’alluminio, anche se mi interessava soprattutto raccontare cosa succede quando finisce il lavoro, cosa può produrre tutto questo dentro la vita delle persone, il senso di disagio e di angoscia esistenziale, la perdita e il gorgo. Cioè quello che in genere non si racconta o si racconta in modo spettacolare o ineluttabile, mentre a livello esistenziale cambia tutto, nonostante la diversità tra impoverimento e povertà reale, che è uno spartiacque importante tra chi vive qui e chi viene dai paesi del Sud del mondo. Per un certo momento, come capita quasi sempre, pensai che dovevo scrivere un libro sulla sofferenza e le lotte dei figli e dei nipoti di quelli che qui avevano sviluppato lungo un secolo quella che una volta veniva chiamata lotta di classe. Il paradosso è che in questo racconto collettivo viene fuori quasi la nostalgia per quel passato che è stato darwiniana lotta per la sopravvivenza ma anche emancipazione politica, rispetto  a un domani sempre più incerto, segnato dalla fine del lavoro e del futuro, soprattutto per le nuove generazioni. Per questo in un titolo forte come Addio convergono molti echi, letterari e sociali, un po’ cristallizza e compendia questa condizione di una umanità contemporanea che nel Sulcis-Iglesiente come altrove vive dentro una crisi che sembra invincibile. Addio, addio è anche il titolo di una struggente canzone di Domenico Modugno, che parla di emigrazione, «amara terra» e Meridione, «amara e bella» dice ancora. Un distacco e una rottura verso qualcosa di perturbante e sconosciuto che mina le fondamenta delle nostre esistenze, come è avvenuto in altre epoche, nei racconti appassionati degli scrittori dell’Ottocento come Dickens e London, oppure nei cantori della Grande depressione dei primi del Novecento come John Steinbeck, e libri come Sia lode ora a uomini di fama, scritto da James Agee e con le fotografie di Walker Evans.

caporalato

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