“Roma”, il film prodotto da Netflix con cui il regista Alfonso Cuarón ha vinto il Leone d’oro a Venezia, rappresenta un’umanità “sospesa fra cemento e cielo, escremento e firmamento. Il tutto avviene con una libertà espressiva nella quale il simbolo sembra emergere dalla realtà senza sforzo e forzature, quasi per caso, con una misura che pare semplice e spontanea ma è il traguardo lampante di un artista adulto dentro” – L’approfondimento

Rottura delle acque. Le correnti sottili, i vortici improvvisi, i violenti marosi e i cavalloni sovrastanti dell’amarcord di Alfonso Cuarón si riversano pienamente, con forza generativa e rigenerante, in questa pellicola. Danno alla luce, fra le ombre e le onde, i carrelli e i travagli, un passato in bianco e nero, fotografato con delicata e struggente grazia, inondato di suoni che avvolgono e investono lo spettatore da ogni direzione, come il liquido amniotico (e ipnotico) di una placenta che protegge e mette in relazione col mondo, si potrebbe dire: che mette al mondo.

Prende così vita, umida e ondivaga, questa Roma d’inizio anni Settanta, quartiere di Città del Messico dove il regista, allora decenne, è cresciuto e da dove decide, per il suo sesto lungometraggio prodotto da Netflix e premiato con il Leone d’oro a Venezia, di far sgorgare con potenza e necessità la sua memoria personale, e far ri-sorgere uno sguardo finalmente maturo. Uno sguardo filtrato dal ricordo di un mondo che è insieme realistico e incantato, debitore del cinema (Fellini in primis) ma non derivativo, dolce e duro come negli occhi di un bambino, frutto di una registrazione precisa e ricostruito puntualmente ma reinventato con affetto, nostalgia, senso creativo.

La città e l’infanzia, il nodo intorno al quale geografia e biografia gravitano, sono rivisitati e riportati in vita attraverso il punto di vista privilegiato, eppure senza privilegi, di Cleo, la domestica/tata di casa, occhio vigile che si prende cura delle cose e delle persone, sguardo prossimo eppure distinto, asservito e salvifico al tempo stesso, che costruisce lo spazio di un accudimento sempre attento, eppure sempre in qualche modo minacciato, relegato altrove, come se la donna risultasse un corpo per necessità estraneo, solidale a quel cane che fa le feste, fa la guardia ma è prigioniero del cortile.

E da questa prospettiva interna/esterna, quasi giocando (nel mondo ipotetico dei bimbi del “come se”) a interrogare un morto che parla, che dichiara paradossalmente di non poter rispondere, si riverbera in queste acque (come in quelle detersive che inaugurano la pellicola specchiando un cielo segnato dalla traccia di un aereo: una bellissima idea di cinema come come riflesso liquido, lavoro di pulizia, possibilità di ribaltamento, volo e rinascita) un passato che torna, per magia, a vivere.

In questo riverbero ludico e spiritico è racchiuso così un frangente decisivo della storia famigliare (la separazione dei genitori), di quella della giovane domestica (una gravidanza non cercata dalla donna, rifiutata dal partner, e dall’esito doloroso), e la Storia del Paese (lacerato da un conflitto sociale con risvolti brutalmente violenti). Come se questo elemento materno, vicario e minuto ma saldo, rappresentato dalla giovane donna a servizio, costituisse il nucleo quasi inconsapevole dello spazio fondativo e protettivo di uno sguardo su un mondo per molti aspetti crudele, minacciato e abbandonato da padri sempre in fuga, tradito da patrie spietate e repressive, che pare prediligere l’esibizione effimera e spietata della forza all’equilibrio consapevole, la durezza insensibile dell’addio all’abbraccio che accoglie e salva.

C’è una parte solida e brutale dunque in questa genesi (uovo di marmo, auto che penetra a fatica in un androne troppo stretto), eppure un lavoro lento e continuo (femminile) che ripara, pulisce, nutre, allevia e alleva (uovo alla coque, acqua che lava i panni e gli escrementi, spegne gli incendi, riporta a riva), ché l’umanità di Cuarón appare sospesa fra cemento e cielo, escremento e firmamento.

Il tutto avviene con una libertà espressiva nella quale il simbolo sembra emergere dalla realtà senza sforzo e forzature, quasi per caso (attraverso un’improvvisazione sapientemente guidata), con una misura che pare semplice e spontanea ma è il traguardo lampante di un artista adulto dentro. Il film di Cuarón, se vede il suo climax nel parto di Cleo, straziante e partecipe fotografia di una perdita ineluttabile di futuro, dolore inconsolabile e letteralmente inconcepibile filmato con impietosa pietà, trova però il suo centro eccentrico e in apparenza periferico, ma fondamentale, in una lezione di equilibrio yoga, impartita a una schiera di esaltati marziali da uno strambo maestro in costume aderente. Solo in apparenza divagante e marginale, e buffo, questo momento di sospensione che vede una sorta di supereroe circense su una gamba sola, con gli occhi bendati, di fronte a un esercito incapace di eseguire un esercizio solo superficialmente banale, diventa una lezione – autoriale, spettatoriale e di vita – che invita a scoprire una potenza interiore che si concentra su di sé non come ripiegamento narcisistico, ma come esercizio paziente e costante di vera e ponderata forza tranquilla del sé.

E in un film visivamente molto bello, ha dunque la meglio lo sguardo rivolto verso l’interno, e la pedagogia visionaria dell’esempio trionfa sulla cieca biologia della riproduzione. La vera nascita, sembra suggerire da regista Cuarón, è un nuovo sguardo che viene alla luce.

L’AUTORE: qui tutte le recensioni e gli articoli di Matteo Columbo per ilLibraio.it

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