Su ilLibraio.it un approfondimento dedicato a “Ride”, esordio da regista di Valerio Mastandrea, “un (auto)ritratto d’autore, il film personale di un attore che, raccontando un trapasso, attraversa con grazia la sua personale linea d’ombra”

“ABOUT”. Quasi, all’incirca. Campeggia questa scritta, traccia di sospensione e d’incertezza, segno di approssimazione e indizio fuori fuoco, sulla maglietta di Carolina, vedova allegra suo malgrado, il cui pianto è come sospeso, rimandato. A chiare lettere, bianco su nero, per buona parte del film, quasi per caso, quelle lettere le porta sul petto, come una dichiarazione. Si potrebbero anche leggere, con un po’ di fantasia, “À bout…” (de souffle), letteralmente “in fondo”, come nell’esordio autoriale per eccellenza, quello di Jean Luc Godard che segna l’inizio della Nouvelle Vague.

Ride, ambizioso debutto alla regia di Valerio Mastandrea, un po’ come Fino all’ultimo respiro, vede Chiara Martegiani, attuale compagna dell’attore-regista, portare quel taglio corto alla Jean Seberg, e affronta di petto, ma non senza ironia (a partire dal titolo antifrastico), un tema finale e duro come la morte.

La giovane donna, come fosse un’attrice in erba, non riesce infatti, colta alla sprovvista dall’incidente fatale sul lavoro del marito trentacinquenne Mauro Secondari, a farsi protagonista di un dolore inaccettabile, di un funerale, date le circostanze, destinato a essere sotto gli occhi di tutti. Incapace di sentire, o solo impreparata a farlo o dimostrarlo, è bloccata nel recitare la parte che parenti, media e conoscenti, tutti, la donna e suo figlio in primis, si aspettano da lei.

Come vestirsi per la cerimonia? Si chiedono a colazione madre e bimbo, anche lui in apparenza contagiato dall’incapacità di reagire, per davvero o convenzionalmente, alla perdita: il ragazzino gioca a far la parte dell’intervistato, immaginando con l’amico il suo quarto d’ora di celebrità alle esequie paterne del giorno dopo, si esercita per gioco ed esorcismo al rito televisivo delle condoglianze sul mare triste dei tetti di Nettuno. Come è giusto e doveroso comportarsi da vedova affranta? Prova ad ascoltare la musica del loro amore, Carolina, a ripescare vecchie foto di felicità di coppia, per costringersi a soffrire. Ma le lacrime non vogliono proprio uscire. Come truccarsi? Si lascia imbellettare dalla vicina anziana, che le regala perle di saggezza frammiste a triti cliché su dignità, tristezza e dipartite. Ma non c’è trucco che tenga.

Come bisogna (com)muoversi? L’ansia di prestazione la porta a imitare inutilmente chi piange il marito morto d’improvviso, morto in fabbrica, che questi vicini, così lontani, lo facciano con sincero trasporto o affettata teatralità, senso di revanche personale o indignazione politica.

Ognuno di quelli che restano (a cui è dedicato in coda l’esordio alla regia di Mastandrea) reagisce a modo suo, ché la morte, in una società senza più riti codificati e codici consolidati e consolatori, lascia ciascuno un po’ perso, a rielaborare a suo modo la forma del lutto.
Ecco che l’inadeguatezza di questa donna, più vera di ogni posa melodrammatica, risulta più credibile, ed emozionante, dell’esibizione enfatica di chi le sta accanto. Lo scriveva Montaigne, nei suoi Saggi, come la pietrificazione del volto e l’assenza di lacrime possano essere i segni della sofferenza più profonda.

Intorno a questa assenza scandalosa – dei segni del dolore, dell’oggetto d’amore, in qualche modo dei padri (come chiosa un po’ retorico il film nel tratto finale) – ruota una pellicola che, con lodevole misura minimalista, racconta questa strana vigilia di un funerale, al quale nessuno dei protagonisti sembra poter veramente partecipare, in attesa di quella “bomba d’acqua”, lacrime catartiche o consolatorio singing in the rain, che tarda ad arrivare, e lo fa in termini onirici e simbolici, quasi per gioco.

Intorno al corpo fantasmatico di Mauro, prima mimato e poi perfino reso presente per un ultimo pasto, è difficile non dare, nel suo essere per tutto per il resto ostentatamente escluso, le fattezze di Mastandrea stesso. Così durante il film, nascosto dietro la macchina da presa, inesorabilmente fuori campo, eppure non ancora al campo santo, la presenza dell’attore si sente attraverso l’assenza del personaggio: nella tristezza frammista ad apatia e senso di colpa che segna i parenti, costringendo loro tenere tutto dentro, si coglie come un’aria di famiglia, e nel padre, nella moglie e nel figlio si specchiano i tratti di questo attore-persona (alla Mastroianni, per intenderci), che attraversa con espressiva indolenza e triste sorriso il cinema italiano contemporaneo.

Con un film asciutto e sentito, assistiamo così, anche, a un (auto)ritratto d’autore, il film personale di un attore che, raccontando un trapasso, attraversa con grazia la sua personale linea d’ombra, e passa dall’altra parte della macchina da presa.

L’AUTORE: qui tutte le recensioni e gli articoli di Matteo Columbo per ilLibraio.it

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