“Il cinema di Bernardo Bertolucci, monumento della consapevolezza autoriale, oggi è vivo più che mai. Se si pensa ai suoi film, si pensa a un corpo presente, pulsante, desiderante. Il suo cinema è sempre politico e privato, è anzi – attraverso uno sguardo originale, sensuale, che avvolge e assedia letteralmente i suoi soggetti – la dimostrazione lampante e geniale che il politico è personale, e viceversa…” – L’approfondimento

Suona beffarda, in ultima analisi inefficace per quanto triste, la morte dell’Autore, innanzitutto perché il cinema di Bernardo Bertolucci, per quanto talvolta accantonato o rimosso, o peggio glorificato nel cliché, è oggi ancora materia viva. In Italia è stato lui il regista che ha più di tutti impersonato il ruolo dell’Artefice nel cinema moderno, da quando la politique des Auteurs è stata prima teorizzata, poi diventata egemone e infine volgarizzata. Eppure il cinema di Bernardo Bertolucci, monumento della consapevolezza autoriale, è vivo più che mai. Se uno pensa ai suoi film, ancor di più nel giorno della sua scomparsa, pensa a un corpo presente, pulsante, desiderante.

A un corpo, appunto.

Spesso rispecchiato in quello giovane, svelato e rivelato, dei suoi attori, mosso dalla danza (ultimo tango o ballo solitario che sia) del desiderio. Il contrario di un corpus museale imbalsamato: una serie di opere capaci a ogni visione, a uno sguardo attento e generoso, di provocare, svegliare, rivelare, far germogliare, mettere in moto. Come se i film di Bertolucci possedessero un cuore che con-batte con i suoi soggetti d’elezione, che racconta le pulsioni e le passioni con trasporto sempre rinnovato, sia che provi a ritrarre, con grandiose dismisure e vertiginosi cambi di fuoco, un mondo intero o l’interno di una sola stanza, un’epoca storica nel suo insieme oppure lo spazio sospeso e isolato di un luogo minimo e in apparenza marginale.

Il discorso di Bernardo Bertolucci sul cinema e attraverso il cinema, pur intriso di una cinefilia appassionata e militante, figlia legittima eppure eretica della Nouvelle Vague (testimoniata in maniera magistrale in Scene madri di Enzo Ungari, da molti considerato uno dei più bei libri di cinema insieme all’intervista di Truffaut a Hitchcock, da rileggere), possiede un respiro molto più ampio e profondo del catalogo citazionista sterile di certo cinema postmoderno, non esaurendosi mai in una cultura visiva e letteraria pur notevole, esibita e messa continuamente in gioco, ma raccontando la concretezza assoluta di storie e personaggi, la bellezza del Mondo e la tragedia della Storia mai in senso astratto e intellettualistico, ma sempre con un’attenzione personalissima, viscerale, poetica e intima alla singolarità.

Una singolarità ogni volta in relazione, in tensione (io e te).

È un cinema, si potrebbe dire in questo senso, che dà alla luce. Con la dedizione del giardiniere, l’illuminazione del Buddha, la luccicanza del bimbo e la saggezza penetrante del morente, ma al contempo col fuoco (prometeico ed erotico) dell’adolescente e dell’innamorato (Lucy si chiamava non a caso la protagonista di Io ballo da sola che, facendo luce, nomen omen, provava a rubare la bellezza), il cinema di Bertolucci incrocia il nostro sguardo, fecondandolo.

Fra gigantismo e minimalismo, alternando affresco politico e (auto)ritratto introspettivo, il suo cinema è sempre in questo senso politico e privato, è anzi – attraverso uno sguardo sempre originale, sensuale, che avvolge e assedia letteralmente i suoi soggetti – la dimostrazione lampante e geniale che il politico è personale, e viceversa. Tuttavia non è mai preda e vittima dell’ideologia. Pure quando in superficie può apparire datato, conserva la sua forza perturbante. Come la tenda utopica e autarchica del finale di The dreamers, i film di Bertolucci, spessissimo mossi da una tentazione centripeta e ombelicale a farsi tana (città proibita, appartamento, conformismo, tela di ragno, cantina, Chiantishire che sia), sono al tempo stesso sempre aperti a quella pietra (dello scandalo?) che, sampietrino lanciato dalla strada, infrange la finestra, disgregando ogni tentazione di isolamento e invocando la dimensione centrifuga, una spinta liberatoria – prima della rivoluzione – a venire al mondo.

Su questo movimento duplice e ambivalente di rifugio e apertura, costrizione ed effrazione, sui movimenti di macchina che lo di-segnano come atti morali (secondo la predicazione di Rivette e di Godard e la fede apostata dei loro seguaci), sulla mozione degli affetti che struttura e smonta insieme il melodramma, si fonda la forza propulsiva, ancora commovente, del cinema (e-motion picture lo chiamava giustamente Wim Wenders) dell’ultimo Autore, che continua a farci sognare, e vive e vibra come neonato nei suoi film.

Suona ironico e crudelmente paradossale che negli ultimi anni Bertolucci sia stato in qualche modo bloccato, costretto nel corpo e limitato nella creazione, anche perché i suoi film, non solo sono da rivedere, ma ci permettono di ri-vedere, perché generando e muovendo il nostro sguardo ci consentono di vedere di nuovo.

L’AUTORE: qui tutte le recensioni e gli articoli di Matteo Columbo per ilLibraio.it

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