Dopo la raccolta di poesie “Fiaschi” (2009) e il poema in versi “Perché veniamo bene nelle fotografie” (2012), di cui si è molto parlato, Francesco Targhetta è all’esordio in prosa con “Le vite potenziali”, romanzo dell’aziendalismo osservato da una prospettiva umana – L’approfondimento

Internet ha regalato a tutti l’impressione di vivere più vite assieme e di essere più di se stessi soltanto. Com’è possibile accettare la singolarità del vecchio mondo dopo che si è stati iniziati all’infinità delle evenienze offerte da quello nuovo?

L’impalcatura narrativa e tematica di Le vite potenziali, esordio in prosa di Francesco Targhetta dopo la raccolta di poesie Fiaschi (ExCogita, 2009) e il poema in versi Perché veniamo bene nelle fotografie (Isbn edizioni, 2012), sembra essere costruita intorno alla necessità di trovare una risposta, concreta e metafisica, a questa domanda. I pilastri su cui si regge, le “vite” a cui fa allusione il titolo, sono quelle dei tre protagonisti, diversissimi tra loro ma uniti da quel collante che appiana per forza di cose ogni divergenza caratteriale: il lavoro, o meglio, l’azienda. Le potenzialità – inespresse? – di queste esistenze gravitano tutte intorno alla Albecom, ditta informatica in ascesa fondata da Alberto e in cui lavorano anche Giorgio (GDL), che in termini di ambizione non ha nulla da invidiare al suo superiore, e Luciano, «programmatore diffidente verso la tecnologia, proprio perché, a ben vedere, era il fondamento della sua stessa esistenza».

Le vite potenziali di Francesco Targhetta

Le vicende di Alberto e GDL sono quelle di due trentenni in preda alla frenesia della carriera, apparentemente solidi in una marea di devastazione emotiva di cui solo Luciano, per trascorsi personali e indole, sembra avere pienamente coscienza. È proprio al suo personaggio che sono dedicate le pagine più liriche del romanzo, che stonano e per questo commuovono all’interno di un amaro ritratto del mondo contemporaneo piegato alle leggi del profitto e alla macchina del lavoro.

Luciano, avendo vissuto la maggior parte della sua vita appartato, solo sfiorato dalle cose, ora, nella sua maturità, aveva la capacità di sentirle più degli altri, poiché aveva mantenuto intatta la propria sensibilità verso l’esterno […] Se si fosse gettato un sasso dentro Luciano, se ne sarebbe avvertito solo dopo molto tempo il tonfo, remoto ma come amplificato in una terribile distanza.

Come in un microcosmo concentrico, a loro volta Alberto, GDL e Luciano accolgono nella propria orbita altre figure, soprattutto femminili, i cui contorni indefiniti appaiono di sbieco tra una riunione di lavoro e un colloquio, tra una trasferta oltre confine e una pausa pranzo affrettata, quasi subito ingoiati da una dimensione, quella aziendale, che li schiaccia con tutto il suo ingombrante peso (economico e non). Si finisce così per inseguire tra le righe una Veronica, una Bea, una Matilde, talvolta si ha quasi l’illusione di afferrarle, per poi rendersi conto che ad essere potenziali, forse, sono proprio queste relazioni incapaci di esprimersi in un contesto disumanizzante che le mortifica.

Targhetta dipinge la realtà attuale in cui l’amore in qualche modo esiste, che sia quello filiale male espresso o quello che finisce suo malgrado per incatenare una coppia, ma in questo mondo fatto di colossi industriali e informatici sopravvive solo come eco, percepibile ma lontana: «A volte viene e non dovrebbe venire mai, la curiosità di sapere se l’amore che si prova per qualcuno potrebbe trovare, in un modo o nell’altro, un senso». Così, ciò che resta dei legami umani annaspa lungo il confine sempre più labile che separa due mondi: quello monolitico trasmesso dagli avi e quello multiforme della rete.

La grande famiglia della Albecom, fatta di cervelli in fuga e abili imprenditori – «persone che hanno mille marce in più, ma le ingranano a caso» – ha interiorizzato questa consapevolezza facendone la sua forza:

E così accumuli ipotesi e opzioni di consumo, dicono, ammucchi potenzialità, mica altro, possibilità di esperienza, perché poi finisce quasi sempre che ti manca il tempo per godere davvero di quello che hai comprato, e allora si crea quel vuoto che ti spinge a comprare ancora, e intanto in cambio hai la sensazione di una vita ricca, una vita pronta a diventare più intensa, sempre sul punto di esplodere, di farsi più vasta e desiderabile. Vedi, noi diamo soprattutto questo, a prescindere dal prodotto specifico che vende il nostro cliente: diamo la sensazione di avere una vita che merita in continuazione, anzi, sempre di più, di essere vissuta. C’è di peggio, no?

La chiave per sopravvivere più o meno incolumi è in mano a pochi: «Gli unici che hanno capito quante vite si debbano vivere per riuscire a stare a galla, e che le vedono sommarsi ogni giorno a quella presente, le loro vite potenziali.»

Le pagine di Targhetta si snodano seguendo un incostante moto di oscillazione tra la concretezza tangibile delle dinamiche affaristiche quotidiane, descritte con analitica neutralità, e le velleità sentimentali di chi vi è suo malgrado invischiato, dove immagini e toni crepuscolari prendono il sopravvento suscitando ondate di empatia nel lettore.

Il lirismo di Le vite potenziali finisce così per risiedere nella sua volontà di farsi romanzo dell’aziendalismo osservato da una prospettiva umana: una contraddizione in termini che sfocia in una sorta di amara rassegnazione in cui alle parole di Alberto, pronto a «fare pace con il destino degli altri» per andare incontro al proprio di padre, fa da contraltare l’immagine del giuggiolo malato del giardino di casa di Luciano:

Parcheggiando con cautela nel vialetto di casa, scorse il giuggiolo al centro del giardino. Era malato. Non dava più frutti da tre anni, ma in compenso da quell’estate aveva iniziato a moltiplicare i butti sulle radici: tutta l’erba attorno all’albero era fittamente disseminata di piantine di giuggiolo, anch’esse appestate e corrotte. Pronte a crescere, nel caso non fossero state tagliate, e a riprodursi infinitamente.

Eccole lì, tutte le vite potenziali.

 

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