La “Frieda” che dà il titolo al romanzo d’esordio di Christophe Palomar è Frieda von Richthofen, figlia di un alto ufficiale tedesco, cugina del Barone Rosso e musa di D.H. Lawrence, il chiacchierato e geniale autore de “L’amante di Lady Chatterley”. Su ilLibraio.it l’autore immagina una conversazione con Joseph Roth (2 settembre 1894 – 27 maggio 1939), cantore della finis Austriae, della dissoluzione dell’impero austro-ungarico

JR: Palomar, il suo protagonista, nasce in Germania nel 1883 (qualche anno prima di me), ma studia nella mia Vienna negli stessi anni in cui io andavo a scuola. Anche Lei è nostalgico del nostro defunto impero?
CP: Nostalgico no, anche se mi sento molto a mio agio nella mitizzata “Vienna 1900”. La crisi del mondo asburgico, da Lei descritta così bene nella Marcia di Radetzky sancisce la fine del “mondo di ieri” e l’avvento della modernità: inconscio, intimità, irrisolutezza, “solitudine interiore” sono concetti riconducibili a quel mondo. Lo smarrimento dell’individuo, la pigrizia, la frantumazione dei valori, l’avvento del dio denaro, l’uomo che si sente estromesso dal mondo, l’odio come collante degli ultimi sono nodi che abbiamo ereditato da Vienna 1900. La realtà come smembramento della realtà stessa. Chiusa la lunga e cruente parentesi dei totalitarismi del novecento, questi nodi oggi tornano a galla. E sono tutti irrisolti.
JR: Hermann Bahr, che ho conosciuto bene, scrive così: “Mai vi fu un’epoca più sconvolta dalla disperazione. Mai l’uomo è stato più piccolo. Mai è stato più inquieto. Mai la gioia è stata più assente e mai e la libertà più morta.” Quindi Frieda è un romanzo storico?
CP: Tutt’altro. Da anni avevo in mente un romanzo sull’uomo moderno, sul rapporto così labile fra fallimento e compimento, che con Vienna hanno smesso di essere concetti nitidi per diventare impressioni, sensazioni opinabilissime. Farlo parlando dell’oggi mi sembrava allora complicato. Ambientare la giovinezza del mio protagonista nella Vienna dei primi del ‘900 mi è parsa la cosa giusta da fare.
JR: Il protagonista appunto. Ci racconti di lui, e della Frieda che dà il titolo al romanzo.
CP: Joachim von Tilly nasce nobile, bello e ricco in una famiglia di industriali tedeschi. È l’inizio di una “fiaba “dell’esito chiaro a tutti tranne che a lui. Fin da subito in effetti, Joachim si sente estraneo alla propria vita. Si sogna artista, letterato, industriale, politico pur intuendo che nulla di tutto ciò avverrà. Finché, nella Capri cosmopolita del primo novecento, non incontrerà Frieda, donna affascinante e musa dello scrittore Lawrence, che lo porterà verso quello che Musil chiamava “l’altro stato”. A Capri Joachim s’imbatte nella bellezza e nell’amore. Un’esperienza che lo segnerà per sempre.
JR: Quel che accade dopo Capri diventa una fuga infinita che porta Joachim a Vienna, Berlino, Napoli, Buenos Aires e infine nelle Ande (fra l’altro La ringrazio per aver citato il mio Volo senza fine impropriamente tradotto come Fuga senza fine). Ma a fuggire di solito sono gli ebrei erranti, non gli aristocratici tedeschi. Come mai questa scelta per Joachim?
CP:  La sua è la storia di un uomo che si confronta con il caos del mondo, e che più che cittadino di un paese, si sente cittadino del proprio tempo, ben consapevole di appartenere a una generazione che si ribella alla tradizione (come dice lui stesso: “il novecento è la vittoria della giovinezza sulla tradizione”). A modo suo, Joachim proverà a cambiare la realtà, salvo scoprire di non essere adatto a un tempo che prende una piega sempre più inquietante: il dominio della tecnica, il cinismo del potere, l’avvento del nazismo sono eventi che un aristocratico come lui non si sente di accettare. Da lì la necessità di fuggire. A meno che sia il secolo a fuggire, non Joachim. Tant’è che alla fine del romanzo, accade un rovesciamento che mi sembra interessante, come dicevo prima, fra fallimento e compimento.
JR: Fuga, smarrimento, solitudine: Lei converrà che sono tutte tematiche centrali nei miei libri. Ma allora non è cambiato nulla dai miei anni ’20?
CP: C’è chi dice che gli anni ’20 siano tornati, con da un lato una parvenza festosa e dall’altro un senso di angoscia, di perdita di senso che fa lievitare il negativo. I suoi personaggi erano smarriti nella geografia devastata dalle guerre e dai trattati di pace. Oggi siamo altrettanto smarriti nella globalizzazione e nella rete. Sono due labirinti che si equivalgono.
JR: Non capisco cosa intenda Lei per globalizzazione e rete, me lo spiegherà dopo. Ma torniamo a Frieda. Il romanzo è narrato in prima persona. Lo fa per nascondersi dietro al suo personaggio?
CP: Quando ho cominciato a scrivere Frieda, non c’era un piano. Partendo dall’infanzia di Joachim volevo crescere assieme a lui, e con lui affrontare la vita man mano che sarebbe accaduta. Da lì la necessità di stargli alle costole come si sta alle costole del divenire, mentre la vita dà e toglie. Perché nella drammaticità del divenire si apre lo stupore dell’essere, la meraviglia dell’amore che si fa amare. Niente schema da parte mia, niente volontà di incastrare forzosamente una storia individuale nella storia generale. Volevo indagare la realtà, non spiegarla.
JR: Ma si può sopravvivere alla modernità?
CP: Nessuna domanda è più moderna e attuale di questa.

L’AUTORE – La Frieda che dà il titolo al romanzo d’esordio di Christophe Palomar, pubblicato da Ponte alle Grazie, è Frieda von Richthofen, figlia di un alto ufficiale tedesco, cugina del Barone Rosso e musa di D.H. Lawrence, il chiacchierato e geniale autore dell’Amante di Lady Chatterley.

Donna dalla personalità eccezionale, è lei la grande fonte d’ispirazione e di passione del protagonista e voce narrante del romanzo, Joachim von Tilly. Questi, rampollo di una famiglia di conti tedeschi, sembra destinato a seguire le orme paterne a capo delle acciaierie di famiglia. Nella bellezza della Capri del primo Novecento, Joachim avverte tuttavia la possibilità di un’altra vita. Inizia allora per lui una fuga senza fine, costellata d’incontri, amori, speranze e tradimenti. Una fuga che lo porta da Vienna e Berlino fino a Buenos Aires, dove lo attendono le risposte alle tante domande lasciate in sospeso.

Attraverso le vicende di Joachim, Palomar consegna un affresco ambientato tra il declino della Belle Époque, i vorticosi anni Venti e il crollo del nazifascismo. Pubblicato in poche copie nel 2015 da un piccolo libraio-editore milanese e ora presentato in una versione largamente rivisitata, questo romanzo si propone come classico e modernissimo al contempo.

Palomar è stato anche protagonista dell’antologia Occhi mediterranei, pubblicata da Pendragon.

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