A dieci anni dall’esordio con il bestseller internazionale “Il suggeritore”, la sfida ricomincia… Arriva in libreria “Il gioco del suggeritore”, nuovo thriller di Donato Carrisi – Su ilLibraio.it un estratto

A dieci anni dall’esordio con il bestseller internazionale Il suggeritore, la sfida ricomincia… Arriva in libreria, sempre Longanesi, Il gioco del suggeritore, il nuovo thriller di Donato Carrisi, maestro italiano del genere.
Tutto parte con la chiamata al numero della polizia che arriva verso sera da una fattoria isolata, a una quindicina di chilometri dalla città. A chiedere aiuto è la voce di una donna, spaventata. Ma sulla zona imperversa un violento temporale, e la prima pattuglia disponibile riesce a giungere soltanto ore dopo. Troppo tardi.
Qualcosa di sconvolgente è successo, qualcosa che lascia gli investigatori senza alcuna risposta possibile – soltanto un enigma.
C’è un’unica persona in grado di svelare il messaggio celato dentro al male, ma quella persona non è più una poliziotta. Ha lasciato il suo lavoro di cacciatrice di persone scomparse e si è ritirata a vivere un’esistenza isolata in riva a un lago, con la sola compagnia della figlia Alice. Tuttavia, quando viene chiamata direttamente in causa, Mila Vasquez non può sottrarsi. Perché questa indagine la riguarda da vicino. Più di quanto lei stessa creda. Ed è così che comincia a prendere forma un disegno oscuro, fatto di incubi abilmente celati e di sfide continue. Il male cambia nome, cambia aspetto, si nasconde nelle pieghe fra il mondo reale e quello virtuale in cui ormai tutti trascorriamo gran parte della nostra vita, lasciando tracce digitali impossibili da cancellare. È un gioco, ed è soltanto iniziato. Perché lui è sempre un passo avanti.

Su ilLibraio.it, per gentile concessione della casa editrice, proponiamo un estratto:

(…)

La lettera era arrivata puntuale come ogni febbraio.

Ogni volta, il contenuto era più o meno identico. La informavano che il quadro clinico era rimasto immutato e che, al momento, non c’erano segnali significativi per prevedere come si sarebbe evoluto. Chi redigeva la missiva concludeva sempre con la stessa espressione.

«Le condizioni generali del paziente rimangono irreversibili.»

La frase era un sottile invito a decidere se prolungare di un altro anno i trattamenti di respirazione assistita e alimentazione artificiale, o mettere fine una volta per tutte a quella vita vegetale.

Mila ripose la lettera in un cassetto e sollevò lo sguardo al panorama fuori dalla finestra della cucina. Il sole al tramonto assumeva strane tonalità di grigio nel riflesso sul lago e Alice rincorreva le foglie nel vento, sul prato alberato a pochi metri dal pontile. L’inverno aveva spogliato da tempo i due tigli che sovrastavano la casa. Chissà allora da dove venivano quelle foglie secche – forse erano arrivate dal fitto bosco che faceva da corolla al limpido specchio di acqua verde.

Alice indossava un pesante pullover e una sciarpa che svolazzava insieme ai capelli rossi. Il suo fiato si condensava per il freddo, ma sembrava felice. Intanto Mila si godeva il tepore della casa. Stava preparando lo stufato di verdure per la cena e in forno c’era una torta di mele che riempiva l’ambiente di un profumo dolce, di zucchero e cannella. Negli ultimi mesi aveva scoperto un’insospettabile attitudine. Lei che considerava i pasti solo un modo per fornire energie all’organismo, adesso era perfino capace di estrarre un sapore dai cibi. Sicuramente Alice era più stupita di lei, perché cucinare era una delle cose che facevano le altre madri, non la sua.

C’erano stati parecchi cambiamenti nell’ultimo anno. Non si era trattato semplicemente di introdurre nuove abitudini, bensì del principio di una nuova vita.

Nell’ultima indagine di cui si era occupata, Mila aveva corso un grave pericolo.

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L’idea di morire in servizio non era mai stata un problema prima di allora. È un rischio che ogni poliziotto mette in conto. Ma dopo esserci andata vicino, aveva riconsiderato la questione. Improvvisamente era stata costretta a porsi una domanda banale, che però non si era mai fatta.

Se lei fosse morta, cosa ne sarebbe stato di Alice? Già era difficile per sua figlia crescere senza un padre.

Per questo aveva maturato la decisione di rinunciare alla divisa. Adesso sembrava passato un secolo da quando Mila Vasquez era stata completamente dedita alla propria missione: ritrovare le persone scomparse.

Non si era mai ritenuta uno sbirro comune. Soprattutto non era mai stata una persona comune, altrimenti non avrebbe scelto di dare la caccia alle ombre.

Verso i sedici anni, Mila si era accorta di essere diversa: a differenza di tutti quelli che conosceva, lei non riusciva a provare empatia. Per molto tempo era stato qualcosa di cui vergognarsi, che le impediva di avere relazioni e la metteva sotto una luce ambigua. Quando finalmente, attorno ai venticinque anni, era riuscita a trovare il coraggio di parlarne con uno psichiatra, questi aveva dato un nome al suo disturbo: alessitimia. Consisteva in una sorta di analfabetismo emotivo. In pratica, Mila non era capace di rapportarsi agli altri in maniera affettiva, e non era nemmeno in grado di identificare o descrivere i propri sentimenti. Perciò, era come non averne affatto.

Qualcuno lo chiamava «gelo dell’anima». Col tempo, aveva compreso il motivo di quel dono oscuro. Mila si era resa conto di essere un portale, un accesso segreto verso una dimensione fatta di tenebra e malvagità. Quel passaggio, una volta aperto, non poteva più essere richiuso.

È dal buio che vengo. Ed è al buio che ogni tanto devo ritornare…

Da poliziotta, aveva considerato la propria condizione una preziosa alleata, perché le permetteva di trattare con lucido distacco i casi di cui si occupava. E ciò le tornava utile specie nelle scomparse di minori, dove l’elevato grado di coinvolgimento emotivo costituiva un ostacolo all’obiettività degli investigatori: spesso i colleghi avevano la tentazione di mollare per non dover scoprire la tremenda realtà che si celava quasi sempre alla fine di un’indagine.

Mila lo sapeva: cercare un bambino scomparso era come seguire un arcobaleno nero. Alla fine non c’era ad attenderti una pignatta d’oro, ma solo un mostro silenzioso, ingordo di sangue e d’innocenza.

L’alessitimia era la sua maledizione e anche la sua corazza. Però, c’era un prezzo da pagare.

La mancanza di empatia era una pericolosa affinità coi mostri che si nutrono della sofferenza delle proprie vittime senza riuscire a provare pietà per loro. Per differenziarsi, Mila era ricorsa spesso all’aiuto segreto di una lametta. Piccoli atti di autolesionismo che le servivano per ripristinare dentro di sé il senso del dolore altrui. In fondo, le cicatrici che disegnavano il suo corpo erano la testimonianza di come avesse sempre cercato di immedesimarsi con gli scomparsi su cui indagava, creando un contatto empatico con loro. Il male fisico rimpiazzava quello dell’anima, facendola sentire meno in colpa per la propria indifferenza.

L’unico periodo in cui aveva provato di nuovo qualcosa – qualcosa di umano – era stato mentre era incinta di Alice. Un’esperienza emotiva che, purtroppo per entrambe, si era conclusa con il parto.

In seguito Mila non era mai stata capace di essere una madre, né buona né cattiva.  Semplicemente, non possedeva gli strumenti per esserlo. La sua premura nei confronti di Alice non era diversa da quella che si potrebbe avere per una pianta. Eppure si era occupata della figlia nel migliore dei modi possibili – possibili per lei, naturalmente.

Tutto questo, però, faceva ormai parte del passato.

All’incirca un anno prima, Mila aveva deciso che era giunto il momento di porre rimedio allo stallo del cuore e dell’anima. Aveva preso in affitto quella casa sul lago ed era fuggita dal mondo con Alice.

Non era stato facile. Dovevano ancora abituarsi ciascuna alla presenza dell’altra. Ma, poco a poco, stavano scoprendo di non essere delle perfette estranee. Anche se sovente Mila doveva fare i conti con la tentazione di rifugiarsi nel bagno di sopra, scartare una delle lamette celate in una confezione nello stipo dietro lo specchio e praticarsi una ferita in un punto del corpo già segnato.

Un modo per far sgorgare da sé, insieme al sangue, uno spasimo che la facesse sentire ancora umana. Perché a volte ne dubitava.

Adesso, in una rigida serata di fine febbraio, Mila osservava la figlia divertirsi da sola nel prato e non poteva fare a meno di chiedersi quanto di sé ci fosse in Alice. Aveva compiuto dieci anni. Di lì a poco, gli ormoni avrebbero rivoluzionato la sua esistenza. I giochi innocenti sarebbero stati rinnegati senza rimpianti, con cosciente spietatezza. E anche lei, come tutti d’altronde, avrebbe dimenticato di colpo che cosa significa essere bambini. Però, come ben sanno gli adulti, avrebbe anche avuto nostalgia di quei giorni per il resto della vita.

Ma la preoccupazione di sua madre era ben altra.

Mila temeva che, com’era stato per lei, con l’adolescenza arrivasse anche il gelo dell’anima. Non esistevano prove scientifiche che l’alessitimia fosse ereditaria, ma la casistica sembrava evolvere in tal senso. L’alternativa era che Alice somigliasse al padre, e anche questo Mila non poteva accettarlo.

Non quell’uomo. Non lui, si disse ripensando alla lettera della clinica.

Non pronunciava mai il suo nome. Quel nome non meritava di essere neanche pensato. Nemmeno Alice lo diceva mai.

Come richiamata dallo sguardo della madre, la bambina si voltò verso di lei. Da dietro ai vetri, Mila le fece cenno di rientrare.

«Nell’albero c’è una tana di scoiattoli» annunciò infreddolita Alice, varcando la soglia.

Mila le mise un plaid sulle spalle perché l’umidità esterna le si era appiccicata addosso. Un’altra madre avrebbe accolto la figlia nel calore di un abbraccio. Ma Alice non aveva un’altra madre, aveva lei. «Nessuna traccia di Finz?» le domandò.

Alice sollevò le spalle.

Il disinteresse per la recente sparizione della gatta preoccupava Mila. Poteva essere un segnale dell’alessitimia?

«Cosa c’è per cena?» chiese la bambina, cambiando argomento.

«Stufato di verdure e poi torta di mele.»

Alice la osservò, incuriosita. «Se mangio lo stufato, posso portare la torta nel rifugio?»

Era così che definiva la capanna di coperte che si era costruita in cima alle scale. Trascorreva lì molto tempo, a leggere alla luce di una pila o ad ascoltare musica da un vecchio iPod – ultimamente, aveva una fissa per Elvis Presley.

«Vedremo» disse Mila, che non si sbilanciava mai quando si trattava di concedere eccezioni alle regole della casa.

«Pensi che questo fine settimana lui verrà?»

La domanda la spiazzò. In passato glielo domandava di rado, ma nell’ultimo mese era già la terza volta che chiedeva di lui. Chissà perché Alice si era messa in testa che suo padre sarebbe venuto a trovarle. Mila le aveva spiegato che non sarebbe accaduto, che quell’uomo era in coma da anni e che non si sarebbe più risvegliato. Almeno non in questa vita. Forse solo all’inferno. Ma Alice si era fabbricata quella fantasia per cui lui sarebbe apparso prima o poi e avrebbero trascorso del tempo insieme, come una vera famiglia.

«Non succederà» disse Mila per l’ennesima volta, vedendo spegnersi un piccolo barlume nei suoi occhi.

Alice si strinse nel plaid e andò a sedersi sulla vecchia poltrona accanto al fuoco del camino. Non insisteva mai.

Mila sapeva cose che avrebbe preferito ignorare, cose che nessuno dovrebbe conoscere. Cose indicibili sugli esseri umani. Cose sul male che le persone fanno ai propri simili. E Alice non avrebbe dovuto scoprire che nella schiera dei sadici c’era anche suo padre, era troppo presto.

L’ex poliziotta aveva stabilito che la figlia sarebbe arrivata il più tardi possibile a conoscere il crimine che si nascondeva dietro la sua nascita, ma anche la crudeltà che albergava nel mondo.

Doveva proteggerla.

Non potendo chiudere il portale con la dimensione oscura, aveva tagliato i ponti col passato. Anche se teneva sempre la pistola nel cassetto accanto al letto, non doveva più dare la caccia a nessuno.

Si era convinta che se lei non cercava più il buio, allora il buio non sarebbe più venuto a cercarla.

Ma, proprio mentre formulava quei pensieri, il suo sguardo colse un leggero cambiamento nel paesaggio fuori dalla finestra. Il sole era quasi tramontato, ma Mila lo vide riflettersi debolmente sul parabrezza dell’anonima berlina scura che percorreva il lungolago.

Avvertì un familiare solletico alla base del collo. Nonché il presagio che quella visita inaspettata portasse in dono qualcosa di spiacevole.

(continua in libreria…)

nota: la foro di Donato Carrisi è di Gianmarco Chieregato

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