Giorgio Fontana, vincitore del premio Campiello 2014, torna in libreria con “Un solo paradiso”, romanzo ambientato a Milano (ritratta “con un pennello impressionista”) che racconta un amore “wertheriano”. In una lunga intervista con ilLibraio.it lo scrittore racconta la sua sfida: “Mi chiedevo: riuscirò a raccontare un amore di quelli che hanno un valore esistenziale profondo che ti cambiano come essere umano? Nel bene o nel male”. E parla, tra le altre cose, degli autori della sua generazione a cui si sente legato, oltre che delle librerie indipendenti milanesi…

È un delirio metropolitano (e alcolico), in una Milano attraversata e descritta attraverso gli occhi del protagonista, un giovane uomo la cui esistenza, da “dolceamaro contentarsi” diventa un viaggio verso l’inferno, verso l’autodistruzione. E tutto solo per amore. L’ultimo romanzo di Giorgio Fontana, Un solo paradiso (Sellerio Editore) è una storia fuori dal tempo, dal sapore wertheriano e apparentemente inattuale che racconta l’idillio amoroso tra Martina e Alessio, due giovani di 26 e 29 anni all’inizio degli anni Duemila. Un idillio che si va a spegnere dopo alcuni mesi, ma che per lui diventa un’autentica ossessione. Un’ossessione che in un altro romanzo d’amore di culto degli ultimi anni, il Museo dell’Innocenza del Premio Nobel Orhan Pamuk era sublimata negli oggetti. Qui il protagonista, amante del jazz e dei viaggi, decide invece di annebbiare la propria disperazione nell’alcool e nel vagabondare per le vie a nord di Milano. “Bere per ricordare, non per dimenticare, e come un palombaro andare nel fondo più fondo”, afferma Fontana. Una materia che “brucia le dita”, al punto che lo scrittore decide di avvalersi di un finto narratore, una falsa prima persona che è l’amico fotografo di Alessio, incontrato per caso dopo anni in un bar che erano soliti frequentare, e destinato a diventare il depositario della sua disperata vicenda. Vincitore del Premio Campiello nel 2014 con Morte di un uomo felice, secondo episodio del “dittico civile” con protagonisti i magistrati Colnaghi e Doni (Per legge superiore), Fontana è una delle voci più stimate tra gli scrittori della sua generazione.

ilLibraio.it lo ha incontrato in un bar scelto da lui per “riecheggiare quelli un po’ scalcagnati che descrivo nel libro”. Un locale nel quartiere Isola: coprisedie damascati color fucsia, tavoli in legno massello, anziani che giocano a carte e una sorridente coppia cinese al bancone. Così, come avviene nel romanzo, iniziamo questa lunga chiacchierata.

un solo paradiso

“C’è molta Milano, molto jazz e molto alcool: insomma è una ballata”. Così ha definito il suo ultimo romanzo. Perché una ballata?
“Perché penso alle ballate di Leonard Cohen o di Jacques Brel, tutti cantautori che hanno saputo raccontare l’amore e la disperazione in maniera apparentemente semplice, ma in realtà carica di passione e di malinconia. Sono ballate ruvide, che non offrono molta consolazione, a volte genuinamente tristi. Quello che volevo fare nella mia testa era un libro breve, compatto. Per voce e chitarra”..

La similitudine con la musica non è casuale…
“Uso queste similitudini musicali perché parlando di Morte di un uomo felice mi viene sempre in mente invece il concetto di musica da camera, di padre e figlio. Invece qui è più una ballata, oppure un trio jazz che esplora sonorità non facili”.

E a proposito del jazz, nel libro viene identificato come “una musica intimamente legata all’autodistruzione” che fa da contrappunto alla vicenda dei protagonisti.
“È stato subito naturale rendere il protagonista un trombettista, anche se non particolarmente dotato, e di metterci tanta musica jazz. Sia perché è una musica che amo molto, sia perché mi sembrava rispecchiasse bene le atmosfere che volevo creare. Una musica che sa raccontare molto bene la città e ha tantissimi registri: dall’entusiasmo alla disperazione. In aggiunta è una musica inattuale”.

In che senso?
“I protagonisti sono giovani adulti di 26 e 29 anni, non è comune che ascoltino questo tipo di musica. Volendo raccontare una storia dal sapore un po’ wertheriano, metterci questo tipo di musica mi aiutava a dare un po’ più di sapore di lontananza nel tempo. È un po’ come se si trovassero a New York o a Parigi negli Anni Trenta o Cinquanta anziché a Milano nei primi anni Duemila”.

giorgio fontana

Da dove è nata l’esigenza di raccontare un amore wertheriano di questo tipo?
“Sui motivi che ti portano a raccontare una storia è sempre difficile rispondere. Ti viene. Ti vengono l’idea, il personaggio e poi il resto. Quando ho iniziato a lavorarci su, quello che mi affascinava era proprio dire: riuscirò a raccontare un amore di quelli che hanno un valore esistenziale profondo che ti cambiano come essere umano? Nel bene o nel male. La nostra è un’epoca in cui sembra tutto molto cinico, fluido, poco pazienze e poco disposto a recepire quel tipo di discorso amoroso che parla una lingua così assoluta, a volte quasi delirante, come è la lingua di Alessio. Io credo che sotto questo velo di cinismo e di apparente liquidità dei rapporti sentimentali, in realtà si continui a soffrire parecchio”.

Serviva dunque un nuovo linguaggio amoroso?
“Citando Frammenti di un discorso amoroso di Roland Barthes, mi sembra che manchi un po’ un linguaggio sociale. Non è un caso che tutti gli amici di Alessio a un certo punto gli dicano sostanzialmente: ‘Sei un imbecille.

Non vale la pena rovinarsi la vita per questo’. Invece io credo, e ne ho avuto testimonianza, che si continuino a vivere dolori e amori così fuori dal tempo. Potevo trattarli in maniera sprezzante e sarcastica, ma non era assolutamente nelle mie corde. Oppure in maniera sdolcinata. Ma possibile che tra queste alternative non ce ne sia un’altra che immerga questo sentimento in una sorta di lavacro purificatorio? E che gli restituisca una dose di ingenuità? Il tutto senza scadere nella retorica o nella banalità. Mi rendo conto che è un rischio che magari è difficile da evitare e non so dire se ci sia riuscito o meno, però secondo me era una battaglia che valeva la pena combattere”.

Nell’album A love supreme del jazzista Coltrane c’è un percorso che è quasi l’opposto di quello del protagonista. Ma permane l’idea dell’ispirazione in una divinità. C’è un passaggio in cui lei scrive a proposito di Alessio: “Stava raggiungendo l’essenziale, che gli piacesse o meno. Come gli antichi profeti aveva guardato un dio negli occhi, e la verità l’aveva trasfigurato”.


“Ovviamente non c’è nulla di sapore religioso in questa affermazione, però Eros è un dio nella mitologia e mi è venuto spontaneo usare questa immagine perché vedevo quest’uomo completamente abbandonato a se stesso, che vagava per la città come i vecchi profeti considerati dei pazzi. E lui, dentro di sé continua a dire: ‘Non sono pazzo. Sto camminando nella miseria e nell’abiezione solo per amore’. Chiaramente tutta la società è pronta a etichettarlo come un folle. Però, chiunque abbia un minimo sofferto per amore, non può che provare un po’ di tenerezza per questa persona”.

morte di un uomo felice

Ha citato questo vagare e camminare per la città. Una città, Milano, che è sempre presente nei suoi romanzi, qui in particolare.
“In questo libro la città è davvero protagonista e non semplicemente uno sfondo. I quartieri che descrivo sono un po’ sempre gli stessi, quelli appesi a nord est, principalmente Lambrate. Questa volta ho provato a mostrare come il tessuto urbano muti a seconda dell’emotività del protagonista. C’è una Milano all’inizio della storia d’amore che è radiosa, autunnale, colorata. Poi diventa sempre più opprimente, a volte caotica. Sembra in alcuni tratti una città onirica, perché lui la attraversa in condizioni precarie, quasi sempre ubriaco. Ho cercato di ritrarre Milano come un pennello impressionista, filtrandola attraverso lo sguardo di Alessio. Per me è stato un ulteriore salto nella descrizione della metropoli”.

A proposito del riuscire a immagazzinare la realtà come la si vede: la fotografia, a partire dalla figura del narratore, è molto presente. “La fotografia è un atto violento sulla realtà. La trasforma, la piega al suo volere, la trasfigura: e da tale inganno occorre difendersi”. E ancora: “La fotografia è l’unica arte che dipende per intero dalla realtà”.
“Il fatto che il narratore sia un fotografo non è una casualità. Della fotografia mi affascina questa idea che sia la riproduzione perfetta di ciò che è accaduto, del dato nudo e crudo. E invece no. È sempre un atto di interpretazione, a volte molto violento. Dipende ovviamente dalla realtà, però il modo in cui lo fai, in cui alteri la foto, in cui scegli di tagliare quel momento e soprattutto di estrarlo da un flusso che invece è molto più complicato di quanto restituisca un’immagine, ecco questo mi attrae tantissimo. È quello che Roland Barthes chiamava la ‘polisemia della foto’: a una foto puoi agganciare tutte le storie che vuoi”.

Fino a non riconoscersi più.
“Infatti. Quando il narratore riguarda le foto di Alessio e Martina si chiede: ‘A me queste persone non sembrano neanche esistite, eppure questi pixel documentano che lo sono. Ma ora che fine hanno fatto? Dove sono lo spazio e il tempo che hanno portato da questa immagine a come sono adesso?’. In una prima stesura c’erano molte più osservazioni di questo tipo, ma poi le ho tagliate perché potevano diventare noiose. Mi sto interessando molto di filosofia e sociologia della fotografia”.

Eppure rifugge da tutto ciò che in maniera “più social” riguarda la fotografia.
“Non ho Instagram perché non ho uno smartphone”.

Niente smartphone… Inattualità o snobismo?
“Finché non ne ho bisogno indispensabile per lavoro, posso farne a meno. So che è un grande privilegio. Vado in giro senza la necessità di essere connesso. Mi piace molto camminare a caso. Chi ha bisogno di me ha il mio numero”.

per legge superiore

In effetti anche nel libro mancano le nuove tecnologie…
“Il romanzo è ambientato una decina di anni fa. Non è mai detto esplicitamente, ma è così. Questo perché altrimenti sarebbe stato complicatissimo inserire tutta la comunicazione digitale collegata a una storia d’amore e io, essendo poco legato a questo mondo, non avrei saputo affrontarlo. È stato un mero escamotage”.

Un tema appartenuto anche ai suoi romanzi precedenti è quello della salvezza. Salvezza che qui non sembra comparire. Fin dall’espressione che dà il titolo al libro: “Si sopravvive a tanti inferni, e non a un solo paradiso”.
“È un tema che inevitabilmente ritorna. In Per legge superiore aveva una connotazione interamente laica, era soprattutto la correzione dell’errore giuridico, l’idea della mano che si tende anche verso chi ha sbagliato. In Morte di un uomo felice attraverso il protagonista Colnaghi, si colora inevitabilmente di un elemento religioso, ma non solo, perché per lui la salvezza era cercare di salvare la memoria del padre. In quest’ultimo romanzo torna ad essere un tema laico, ma quasi con una caratura ultraterrena, perché è come se Alessio chiedesse al dio amore di mondarlo da tutta la sua indifferenza, il suo accontentarsi di una vita piatta”.

L’atteggiamento di Alessio nei confronti dell’amore e della vita, prima di incontrare Martina, era da lui stesso chiamato un “dolceamaro contentarsi”. Un atteggiamento comune oggi.
“A volte lo intravedo e mi fa molta rabbia. Non accetto l’idea di non fare nulla perché potrebbe arrivarmi del dolore in cambio. A questo punto nessuno farebbe più niente. Ciò che amiamo comporta fatica. Ma sarebbe un peccato rinunciarci”.

Quali sono gli autori della sua generazione che segue di più?
“Stanno uscendo o sono da poco usciti un sacco di libri di miei colleghi, più o meno della mia età. Ad esempio il nuovo romanzo di Marco Rossari, che è a dire poco roboante, una storiona che si sviluppa lungo tutto l’arco del Novecento, ambizioso e potente. Marco Missiroli, con cui ormai siamo un’entità indistinguibile. Deve uscire il primo romanzo di Paolo Cognetti che finora ha scritto solo racconti e lo attendo con grande interesse. Claudia Durastanti, Giusi Marchetta, Andrea Tarabbia che era in finale al Campiello e che scrive libri potentissimi, un bel pugno sui denti. Di stranieri in questo periodo sto leggendo classici e non ho molto il polso delle ultime novità. Di recente ho recensito l’ultima raccolta di saggi di Teju Cole, un autore newyorchese poco più che 40enne che merita di essere conosciuto”.

Qual è il filo rosso che accomuna lei e questi autori?
“Lo ha detto bene proprio Paolo Cognetti in un pezzo scritto qualche anno fa: dopo la sbornia del postmoderno, dopo la generazione dei cannibali che giocava molto sull’ironia e sulla commistione di linguaggi, mi sembra che si sia tornati a raccontare la realtà in maniera realista. Una sorta di realismo emotivo, di attenzione alle relazioni, anche e soprattutto alle città. E questa è una cosa che ritorna in molti autori più o meno miei contemporanei. Ed è molto affascinante. Ci sono poi delle variazioni, autori che provano altre strade. Penso ad esempio a Luciano Funetta, bravissimo, ma che ha un altro approccio ancora. Identificare delle linee di fondo è sempre parziale e rischioso, ma visto che mi ritengo un narratore realista, mi sento più affine, per sensibilità, a questo realismo urbano-emotivo, ma meno male che ci sono tanti filoni e ispirazioni diverse”.

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Quanto è stato il periodo di incubazione di questo libro?
“L’idea del libro risale a diversi anni fa, mi piace lavorare sempre su più spunti contemporaneamente. Era già lì quando avevo finito di scrivere Per legge superiore, però l’idea di Morte di un uomo felice era più pressante, più urgente. Dovevo chiudere quel dittico. Nel concreto la stesura e la revisione di Un solo paradiso risalgono agli ultimi due anni”.

Dopo aver vinto un Campiello e aver guadagnato apprezzamenti da parte di critica e pubblico, ritornare con un libro che tutti partono nel definire “diverso” da quelli precedenti, come si affronta?
“Si affronta. E per una ragione molto semplice: qualunque altra cosa sarebbe stata narrativamente disonesta. Io credo che si debba scrivere la storia che ci si sente di raccontare in quel momento. Scrivere il terzo episodio della saga civile non mi interessava. Avevo detto tutto in quei due libri. Cambiare così tanto argomento, sebbene ci siano delle continuità come Milano, è stato spiazzante anche per me. Sono consapevole che mi capiterà di dover dire ‘Eh lo so che è diverso’, ma non sento il bisogno di giustificarmi. Rimestare lo stesso brodo per anni non fa per me. Infatti le prossime cose saranno ancora diversissime”.

Sta già lavorando a un nuovo progetto?
“Sì e sarà tutto molto diverso e forse non ci sarà nemmeno Milano, o forse meno. Vedremo”.

Veniamo ai fumetti, sua grande passione. Da un anno sceneggia Topolino: le sta piacendo?
“La sensazione è bellissima, ma c’è molto da imparare. Mi fa sorridere pensare che scrivo libri di una amarezza infinita e poi rido da solo mentre sceneggio Paperoga. Evidentemente rappresenta due lati di me che non riesco mai a conciliare per intero e uno finisce nella narrativa e l’altro nelle storie a fumetti”.

Nel romanzo il protagonista vaga per alcune librerie di Milano. Lei quale preferisce?
“Quelle che cito nel romanzo sono rielaborazioni fantastiche di librerie che ho frequentato. Ci sono diverse ottime librerie a Milano, diverse anche giovani che fanno un lavoro eccellente. Molte di loro sono unite nel gruppo Lim, Librerie Indipendenti Milano. Ad esempio, abitando in zona, io vado spesso nella Libreria Popolare di via Tadino, una via che ritorna nel libro. Molto in gamba sono i ragazzi della libreria LesMots nel quartiere Isola, a Gogol and company fanno un lavoro eccezionale. Anche Verso, la nuova libreria in zona Ticinese è molto attiva. Alcune chiudono, altre aprono, però Milano offre molto: invito sempre ad andare a cercarle e a farsi stupire, perché sono anche molto diverse tra loro. È bello farsi consigliare e accompagnare all’interno del mondo del libro da persone differenti. Tanto Milano si gira facilmente per cui basta solo camminare un po’…”.

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