Filosofo ignorante, studente a vita. Così si dice nel 1978 Gaberscik, meglio conosciuto come Giorgio Gaber o Signor G. (1939 – 2003). Tanti, tantissimi sono i riferimenti letterari nella sua vasta produzione artistica (da Adorno a Leopardi, passando per Beckett, Borges, Brecht, Céline, Sartre e Pasolini), che lo distacca nettamente non solo dai suoi contemporanei, ma anche dai nostri… – L’approfondimento

Filosofo ignorante, studente a vita. Così si dice nel 1978 Gaberscik, meglio conosciuto – da tutti – come Giorgio Gaber o Signor G., per i più minimalisti. Conosciuto e non ricordato, perché l’originalità della sua produzione artistica lo distacca nettamente non solo dai suoi contemporanei, ma anche dai nostri.

Perché, a quindici anni dalla sua morte, lo conosciamo così bene? Principalmente per due ordini di motivi. Motivo numero uno: fu uno dei primi interpreti del rock ‘n’ roll nel nostro paese. Si unì ai Rock Boys, il gruppo di Adriano Celentano, gettando le basi del futuro sodalizio artistico con un altro celebre componente dello stesso: Enzo Jannacci, poco più grande di lui, con cui nacquero Il due Corsari. Il gruppo si scioglierà dopo soli due anni, ma l’amicizia e la collaborazione tra i due artisti milanesi durerà per tutta la vita. Erano gli anni dal 1958 al 1969, gli anni della televisione, di Sanremo, di Umberto Simonetta, di un giovane Gaber che duetterà con Mina e ci regalerà pezzi indimenticabili e dai toni più o meno spensierati come La ballata del Cerutti Gino, Lo shampoo, Barbera e Champagne

Il secondo motivo, collocabile temporalmente dagli anni Settanta in poi, ha il nome di Teatro Canzone. L’esigenza di leggere, interpretare, raccontare la realtà in modo nuovo, la necessità di esprimersi in maniera più fedele a sé stessi, ai propri desideri e alle proprie aspirazioni: un flusso di concause che, grazie all’indispensabile collaborazione di Sandro Luporini, generò una forma d’arte all’epoca completamente nuova in Italia. Una forma d’arte capace di fondere canzoni e veri e propri monologhi con la straordinaria presenza scenica di Giorgio Gaber, in una continua tensione tra leggerezza, introspezione, dolorose prese di coscienza e dissacrante ironia.

Ma com’è noto, tutti gli innovatori dal Pleistocene in avanti poggiano più o meno consapevolmente sulle spalle altrui. In particolare, poi, gli anni Settanta furono lo scenario di un’elevazione generale del cantautorato e della canzone, resa da ricche contaminazioni culturali un canale espressivo a cui, come scrive Nando Mainardi, viene riconosciuto il diritto di avventurarsi laddove, in passato, era severamente proibito avvicinarsi. Basti pensare a Fabrizio De André, che farà ampio uso di citazioni e parafrasi di evidente provenienza – dall’intero album basato sull’Antologia di Spoon River di Lee Masters, passando per Wilde, i francesi Baudelaire, Villon, e Rimbaud, Shakespeare e ovviamente i Vangeli apocrifi, per citare solo i casi più eclatanti.
È evidente che la canzone da pochi minuti non basta più: De André come Gaber si servirà dell’album non come mero raccoglitore di brani, accomunati dal solo periodo compositivo, ma nella forma del concept album, corpo unico e strumento narrativo capace di raccontare, sviluppare una storia, sviscerare un tema.

DA MARCUSE FINO A DANTE

Tanti, tantissimi sono i riferimenti nell’opera di Gaber non solo alla letteratura, ma anche alla psicanalisi, alla sociologia e, più in generale, alla filosofia. Frequenti infatti i rimandi all’antipsichiatria, incarnata da Cooper e Laing, i cui nomi compaiono in due monologhi di Libertà obbligatoria, rispettivamente nel La coscienza e ne Il sogno di Gesù. Gaber e Luporini, coppia culturalmente vivace e intellettualmente eclettica, furono vicini alla contestazione del concetto di malattia mentale, all’idea dominante di un comportamento “normale” a cui l’individuo sano va a omologarsi in quante tale (del labile confine tra sano e malato è lampante esempio la canzone Dall’altra parte del cancello). Ricorda Luporini: “Sia io che Giorgio ci eravamo appassionati alla lettura di Laing. Affrontava il complesso tema della schizofrenia sostenendo che questa non è soltanto un disturbo psichiatrico, ma la principale malattia del nostro tempo. Essere vivi senza averne alcuna certezza pare un condizione non più tipica soltanto del soggetto schizoide in senso stretto, ma anche dell’uomo apparentemente sano.

Opera principale di Lang era l’Io diviso (tradotto nel 1969), testo molto in voga in quegli anni, a cui è direttamente riferita la canzone L’elastico, dove i due artisti danno la loro interpretazione della schizofrenia: una mente che trascina faticosamente un corpo incapace di coincidere con il pensiero, che senza posa si sospinge avanti.

Altro sostanzioso riferimento: la Scuola di Francoforte. Frequentissimo il richiamo alle analisi sociologiche di Marcuse e Adorno, specialmente per quanto concerne le riflessioni intorno agli invisibili sistemi oppressivi delle società apparentemente libere e democratiche. L’intero album Libertà obbligatoria si può considerare una riflessione, al netto di sovrastrutture come ideali o consumi che tendono a colonizzare ogni cosa, sulla (r)esistenza di uno spazio autonomo dell’individuo.

Un altro celebre esponente francofortese valse a Gaber il soprannome, da parte di Enzo Golino, di “Adorno del Giambellino”.

Chi se n’è accorto quando abbiamo infilato l’Adorno di Minima Moralia dentro Libertà obbligatoria? La canzone Il Cancro, l’inno ‘agli assassini di dentro’, quelli che ognuno si porta chiusi in sé?”. Giorgio Gaber, L’Espresso, autunno 1980.

Luporini rimase molto colpito dalla lettura di Minima Moralia, in particolare del brano Costanza, che contribuirà alla stesura de Il dilemma, un elogio non alla fedeltà alle istituzioni, ma a sé stessi. La canzone Il tutto è falso ruba il titolo a quello che è forse il più lapidario aforisma del libro, aforisma che rimanda alla capacità di metabolizzazione senza limiti del potere dominante, in grado di fare sua qualsiasi trasgressione o dissidenza, eliminando la libertà e ogni possibilità di trasformazione.

Infine vale la pena segnalare anche l’appassionata lettura del sociologo Baudrillard, “con tutta probabilità più interpretato che capito”, che influenzò moltissimo la stesura di uno spettacolo, Io se fossi Gaber, dove secondo le parole dello stesso Luporini, la chiarezza non regnava sovrana.

Da Baudrillard gli autori riprendono la riflessione sulle idee nuove e rivoluzionarie, che per il sociologo storicamente provenivano da un’élite intellettuale, per sua natura ristretta. Man mano che si diffondevano, le stesse subivano rielaborazioni, modifiche e correzioni per poi tornare indietro da dove erano venute, in un ciclo di continui, sorprendenti spunti e scoperte culturali. Ma in quegli anni (1984-85), la massa sembrava loro capace solo di assorbire, inghiottire acriticamente senza rielaborare niente; e “un pensiero che viene assorbito da un corpo informe finisce per marcire in fretta”. Da qui La massa, un brano secondo Luporini stesso di eccessive pretese teoriche, dal ritmo sì incalzante ma incapace essere veramente interpretato da Gaber, un testo troppo concettuale per la sua indole intimista, esistenziale ma concreta.

Può interessarti anche

LIBRI INGIALLITI DI CARTA STAMPATI

Nel campo della letteratura in senso più stretto, le ispirazioni sono molteplici e spesso inaspettate, come Leopardi: Dialogo della Moda e della Morte, dalle Operette Morali del 1824, ispirerà il sorprendente pezzo Quando è moda è moda. C’è poi Beckett, verso cui va riconosciuto un generale debito stilistico, per le forme e le modalità di quel teatro canzone da Polli d’allevamento in poi fatto di frasi brevi, nervose, concitate, di cui è forse massimo esempio il monologo La stanza del bambino. Poi ancora Jorge Luis Borges, uno degli autori preferiti di Gaber e Luporini, che citarono quasi parola per parola (In Io se fossi Dio e ne Il dilemma), e Brecht, al quale rubarono una frase (“Quali tempi sono questi,/quando discorrere d’alberi è quasi un delitto”) per l’introduzione al Dialogo tra un impegnato e un non so.

Ma è da Louis Ferdinand Céline, lo scrittore che Bernanos disse “creato da Dio per dare scandalo”, che sembra provenire la maggiore ispirazione letteraria dei due artisti. Anarchico, controverso e provocatorio, dal malcelato disprezzo verso gli ideali, dallo stile eclettico e capace di mescolare erudizione ed espressioni gergali, l’autore francese è una miniera d’oro di forma e contenuto. Non rifuggiva la contraddizione, si gettava negli abissi dell’esplorazione di sé, di un’interiorità fatta di pulsioni corporali e istintualità, dell’uomo come essere finito, solo nell’incomprensibile magma dell’esistenza. Difficile non cogliere nel Teatro Canzone almeno gli echi della sua ossessionata ricerca della parola vera, autentica, oltre le mere idee, oltre i virtuosismi stilistici, in un costante e sincopato alternarsi tra angoscia e beffardo sarcasmo di fronte alla condizione dell’essere umano, alle sue nefandezze, al lato oscuro indissolubilmente legato alla nostra esistenza. Libro di riferimento è ovviamente Viaggio al termine della notte, dove è impossibile non ritrovare temi e stilemi tipici del Gaber post ‘70: l’interesse alla dimensione fisica e corporea, l’anti-ideologismo, persino la sintassi – allusioni, improvvise sospensioni,  ritmo serrato.

È La strada a presentare l’omaggio più ampio e diffuso, un’adesione quasi totale al suo pensiero. Seguono La festa, La smorfia, Il suicidio, La masturbazione, Il Cancro, L’ingenuo e molte altri brani, mentre Morte a credito porta i suoi echi in La nave e nel testo del Teatro d’Evocazione, L’insolito commiato del signor Augusto.

Un altro autore francese eserciterà un’ampia influenza e una fascinazione durature sulla coppia. Si tratta di Jean-Paul Sartre, che nelle sue opere letterarie e filosofiche ha scandagliato il tema esistenzialista per eccellenza – quale senso alla nostra esistenza? – e specialmente nel brano Erostrato ha offerto moltissimi spunti, confluiti in particolare ne L’anarchico. Ad affascinare Gaber è soprattutto la frattura io-mondo, l’angoscia di fronte alla precarietà di senso della nostra esistenza che spinge il protagonista del monologo vicino a un gesto estremo, nella convinzione disperata che il disprezzo e lo scandalo dei suoi simili siano pur sempre un modo per uscire dall’anonimato della massa, per passare dal non essere all’essere.

Infine, Pier Paolo Pasolini. Nel 1973 scriveva: “Nessun centralismo fascista è riuscito a fare ciò che ha fatto […] la civiltà dei consumi. […] Per mezzo della televisione […] ha cominciato un’opera di omologazione distruttrice di ogni autenticità e concretezza […] ha imposto […] i modelli voluti dalla nuova industrializzazione, la quale non si accontenta più di un ‘uomo che consuma’, ma pretende che non siano concepibili altre ideologie che quella del consumo”. In queste poche righe ci sono giù i temi principali di Libertà obbligatoria: la denuncia di un potere che inarrestabile penetra sempre più in profondità dentro di noi (vedi Il Cancro), l’omologazione dei gusti e delle scelte, fino a illudere l’uomo di essere libero, ma di una libertà fasulla, senza scampo: la condanna di un uomo obbligatoriamente libero (Si può, L’America e soprattutto Quando lo vedi anche).

Come nota giustamente Mauro Germani, Pasolini e Gaber avevano almeno un obiettivo comune, quello di scardinare il conformismo ideologico. Degno di nota il fatto che la stessa espressione Polli d’allevamento fu usata da Pasolini nel 1975, in riferimento a quegli italiani che hanno subito una nuova ideologia, “la sacralità della merce e dei consumi”, che Gaber denuncia alla sua maniera (“si divoran tutto senza protestare / gli si potrebbe dare in premio un bel barattolo di merda per duemila lire”) nella canzone La festa, in Polli d’allevamento e diffusamente anche nelle altre tracce dell’omonimo album.

Ci sono poi brani come La realtà è un uccello e l’indimenticabile Io se fossi Dio, capolavoro di provocazione e invettiva, dove c’è tutto quell’interesse, persino amore, per la realtà incensurata delle cose, unitamente alla consapevolezza che noi siamo sempre indietro e lei – la realtà – è più avanti, ma che se c’è qualcosa che ci rende veramente uomini e donne è proprio lo slancio imperituro nel colmare questo scarto, le nostre riflessioni e i nostri atti conoscitivi che diventano tentativi di interezza, e danno un significato più profondo alla nostra esistenza.

MANGIARE UN’IDEA

In questo articolo è collezionato qualche caso, i più eclatanti. Ma le citazioni e i riferimenti ai grandi autori sono molti, moltissimi, presenti ma non sempre di facile individuazione. Luporini era stato un avido lettore di Proust, Thomas Mann, Edgar Lee Master, e lo stesso Gaber, che nonostante “da buon ragioniere, non aveva letto quasi niente”, era una persona dalla curiosità straordinariamente vivace, affamato di riferimenti culturali, amante di Pirandello, Pessoa, Musil: c’è motivo di pensare che ogni loro opera sia intessuta di scienze e letteratura, in un teatro dove, “da Shakespeare a Céline, poteva accadere di tutto”.

Ma non va dimenticato che la fedeltà interpretativa nei confronti dei citati era, in un certo senso, un fatto secondario: Gaber e Luporini non hanno avuto paura di saccheggiare il patrimonio conoscitivo dell’umanità, purché il bottino fosse funzionale a quello che volevano dire. Si potrebbe dire che la cultura, per loro, non sia mai stata un fine, ma un mezzo, uno strumento per raggiungere una conoscenza intima della realtà più concreta che ci circonda, dei moti e dei sentimenti più veri che albergano dentro noi stessi: le canzoni ideologiche sono brutte, diceva Gaber nel 1973, e se si parte dall’ideologia si sbaglia, bisogna partire da se stessi, dalle piccole cose. È il problema di fisicizzare de Il sogno di Gesù, è il tema di Un’Idea: “Non è vero che le mie canzoni siano per pochi eletti”, dichiara Gaber nel 1972, “io mi limito a individuare certi problemi e a tradurre la loro origine da intellettuale a fisica, come in un processo digestivo”.

E diventare egli stesso letteratura, a Gaber, non è mai interessato. Perché avrebbe dovuto? La letteratura, la cultura, hanno davvero significato solo nella misura in cui ci permettono di capire chiaramente noi stessi e la nostra realtà. C’è una differenza, diceva in un’intervista, tra intellettuale e saggio. Il primo fa un percorso di testa, che non tiene conto del corpo, dello spazio del cuore, perché lavora solo di meningi. Il filosofo del Giambellino aspirava, ovviamente, alla saggezza.

Dove esistono una voglia, un amore, una passione, lì ci sono anch’io”. Giorgio Gaber, 1998.

 

Come riferimenti bibliografici sono stati utilizzati: Nando Mainardi, La magnifica Illusione. Giorgio Gaber e gli Anni ’70 (Volo Libero), Sandro Luporini, G. Vi racconto Gaber (Mondadori), Mauro Germani, Giorgio Gaber. Il teatro del pensiero (Zona), e Guido Harami (a cura di), Quando parla Gaber (Chiarelettere).

 

Libri consigliati