“Fondamentalmente scappo via da ogni possibile intenzione di ‘dare un messaggio’ o di indicare cosa è bene e cosa è male. Per me, nella storia era importante solo il desiderio dei ragazzi, la loro naturalezza, e l’amore del padre”. Gipi racconta a ilLibraio.it “La terra dei figli”, il suo ultimo romanzo a fumetti. E a proposito di nuove forme di scrittura che vorrebbe sperimentare confessa: “Mi piacerebbe fare qualcosa in radio”

Quando ho finito di divorare La terra dei figli di Gipi (Coconino Press-Fandando), l’ho riletto due volte, di seguito. Avevo l’impressione di non aver colto tutto e questa sensazione mi è rimasta per qualche giorno. Avevo commesso l’errore di volere arrivare a un senso ultimo della storia.

La terra dei figli accompagna il lettore attraverso il bianco e nero, lo stile controllato fino all’ultimo punto dell’ultima linea e la riduzione dei dialoghi, senza tenerlo mai per mano; infine lo molla, con questa sintesi incandescente tra le mani. Viene l’istinto di liberarsene, ma poi, come tutte le storie che meritano di essere ricordate, non succede.

Due anni dopo unastoria, dove al fondo Gipi raccontava dell’impossibilità di avere figli, ne La terra dei figli, uscito l’autunno scorso, incontriamo un padre e il suo amore per i due figli, un romanzo nato secondo le parole dell’autore da “immagini improvvise […], come delle nostalgie improvvise e, a volte, indesiderate.”

gipi la terra dei figli

La prima vignetta di unastoria raffigura una stazione di servizio e ci dice: «Dammi risposte complesse. Please», il narratore ci viene a cercare. Ne La terra dei figli non esiste alcun narratore. Rinunciarvi è stata una scelta fin dal principio della scrittura del libro?
“Sì. È stata una scelta e una necessità. Dopo una serie di libri e di storie che mi vedevano in qualche modo sempre molto presente, avevo la necessità di mettermi da parte, di ridurre al minimo la mia presenza nella storia.
E quella di rinunciare alla voce narrante è stata probabilmente la prima scelta importante fatta quando ho cominciato a strutturare la storia”.

Lei dice spesso di iniziare un lavoro a partire da immagini. Quali sono state le prime che aveva in mente per La terra dei figli?
“Quando l’idea per una storia arriva spesso lo fa in forma di immagini improvvise che mi arrivano in mente. È una cosa sulla quale non ho molto controllo, è come se fossero ricordi di qualcosa che però non è mai avvenuto. Ma arrivano allo stesso modo, come delle nostalgie improvvise e, a volte, indesiderate. Le prime immagini che ho ‘visto’ sono state quelle relative a un quaderno che nessuno sapeva leggere. E poi la morte del padre. La scena della morte del padre l’ho poi risolta in modo diverso da quella ‘nostalgia artificiale’ che mi era venuta in mente, dove avevo visto il padre morto, su una barca e i ragazzi che gli deponevano un pesce sul petto, perché, dicevano: ‘Lui amava i pesci’. L’altra scena che ho visto all’inizio è stata quella di un uomo, estremamente malvagio, che leggendo il quaderno subiva una trasformazione tale da decidere di salvare i protagonisti della storia”.

gipi una storia

Nell’intervista rilasciata a Gianmaria Tammaro per La Stampa del 2 novembre scorso, lei ha detto che l’ambientazione apocalittica di questo libro è un pretesto per il racconto e per dar vita ai personaggi. Aveva in mente altre possibili ambientazioni ugualmente funzionali?
“Sinceramente no. Ho avuto l’idea di quel tipo di ambientazione e l’ho mantenuta. Però, sì, in teoria, la stessa storia avrebbe potuta essere un western o una storia ambientata in un contesto fantascientifico”.

Ne La terra dei figli la brutalità che lei racconta fa parte del quotidiano, e il lettore scopre di esserne invischiato, a un certo punto: è inevitabile. Il racconto, che sembra distaccato, in realtà non lo è affatto. Come si intersecano i due moti della storia, quello centripeto che la chiude nei confini del romanzo, e quello centrifugo che la fa sconfinare verso il lettore?
“La mia speranza era che l’identificazione del lettore con i due ragazzi protagonisti fosse la più intensa possibile. Naturalmente, era una speranza, non so se ci sono riuscito. Però ho utilizzato tutte le tecniche, nei limiti delle mie capacità, per provocare questa identificazione. Credo che in una storia come questa, se si fosse mantenuto un distacco, le cose non avrebbero funzionato”.

Ne La terra dei figli c’è un ruolo cruciale dei traduttori. L’eredità del Padre è affidata a uno strumento ambiguo e scivoloso come la parola scritta su un quaderno. Santo e Lino, i figli, sono analfabeti e insensibili, ma vogliono sapere cosa c’è scritto e per farlo non imparano il codice, ma cercano qualcuno che lo sa già: cercano, di fatto, una traduzione. I traduttori e i mediatori, o chi dovrebbe ricoprire questo ruolo sociale e civile, nella nostra quotidiana terra dei figli esistono ancora?
“Non so rispondere con precisione a questa domanda. Posso dire che in molti mi hanno scritto di aver visto nel libro una sorta di mia difesa e attaccamento alla cultura, alla lettura. Ma per me non è così. A me interessava solo l’amore del padre per i figli. E anche per quanto riguarda i loro antagonisti, i fedeli, non sono stupito dalla loro brutalità e non la attribuisco alla mancanza di cultura. Credo che sia solo un aspetto dell’uomo, naturale e presente da sempre, che ha preso il sopravvento. Fondamentalmente scappo via da ogni possibile intenzione di ‘dare un messaggio’ o di indicare cosa è bene e cosa è male. Per me, nella storia era importante solo il desiderio dei ragazzi, la loro naturalezza, e l’amore del padre”.

gipi esterno notte

In questo libro lei lascia la guida a Santo e Lino: ci indicano cosa vedere e cosa no, nonostante siano entrambi analfabeti anche sentimentali. Il finale però è socchiuso: una carezza, l’incertezza della sensazione che lascia sulla pelle e il bianco totale. Ha voglia di raccontarmi come ha pensato questo finale? Quanto è stato difficile da scrivere?
“È stato difficile. Molto. Ho ridisegnato la scena molte volte. Ho aggiunto parole di sicurezza, delle frasi che aiutassero la comprensione del momento e dei sentimenti dei personaggi ma alla fine ho tolto tutto, e quando l’ho fatto mi sono detto: se sono riuscito a costruire una tensione emotiva durante la storia, una carezza muta sarà sufficiente. E se non sarà sufficiente sarà perché non sono stato abbastanza forte nel racconto. Ma ormai dovevo rischiarmela. Il problema era che io non provavo niente rileggendo la storia. Per me erano disegni, inquadrature, ritmo di lettura. Non provavo, e non potevo provare, sentimenti leggendo.  Quindi affidarsi a una singola carezza è stato un salto nel buio. Allo stesso tempo però, sapevo dall’inizio di voler chiudere la storia con un gesto, un evento, che mettesse in discussione tutto l’impianto pedagogico del padre. Tutti i suoi sforzi per rendere i figli perfetti per quel mondo brutale se ne va in frantumi con quell’intrusione di dolcezza. Anche se al lettore può scaldare un poco il cuore, quello che vedo io, e che mi interessa sul piano della narrazione, è far crollare il castello di carte delle intenzioni del padre. Sconvolgere l’impianto e aprire (nelle pagine che non ci sono, dopo la fine del libro) possibili scenari imprevisti”.

A Lucca, durante Lucca Comics and Games, lei dava la possibilità a chi le chiedeva un autografo sul libro di indicarle un comandamento per la creazione di una futuribile religione dal basso. Le va di dirmi un comandamento che l’ha fatta sorridere e uno che l’ha fatta arrabbiare?
“Mi hanno fatto sorridere tutti. Mi faceva sorridere l’idea che i lettori partecipassero a quel gioco. Ce ne sono stati un paio che mi hanno mandato a fare in culo. Ma non mi hanno fatto arrabbiare. Era prevedibile”.

Gipi
Gipi – foto di Emanuele Rosso

Lei disegna anche copertine per lavori altrui, libri o articoli. Come si approccia a un lavoro di qualcun altro? Deve sentire una sorta di vicinanza con il testo o con l’autore?
“Quello è lavoro. Come fare il dentista. Si deve cercare di lavorare bene, rispettando il paziente, ma non è necessario avere un legame emotivo. Certo, se c’è si farà forse un po’ più di attenzione. Per me il lavoro di illustrazione è questo: lavorare al mio meglio, rispettando il lavoro dell’autore del libro o dell’articolo da illustrare”.

C’è qualche forma di scrittura che non ha ancora sperimentato a cui le piacerebbe dedicarsi?
“La radio. Mi piacerebbe fare qualcosa in radio. Ho una passione per la radio”.

Qual è l’ultimo libro che ha letto?
“La biografia di McCullin, il fotografo. Un uomo che è un esempio di lucidità, onestà e passione”.

 

L’AUTRICE – Elena Marinelli nel 2015 ha pubblicato il suo primo romanzo, Il terzo incomodo (Baldini&Castoldi); qui i suoi articoli per ilLibraio.it

 

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