“Riscrivere il mio libro in inglese è stato un lavoro terribile, ma bellissimo”, racconta Francesco Pacifico a ilLibraio.it riguardo all’esperienza della traduzione del suo romanzo precedente, “Class”. Ora lo scrittore è in libreria con “Le donne amate”, una storia con “un legame con l’attualità”. Inoltre, nell’intervista confronta l’industria culturale americana con quella italiana, dalle riviste fino all’editoria, che negli Usa prende ancora sul serio “il libro come oggetto artistico”. E riflette sulla traduzione come esercizio per chi scrive. Infine, parla dell’impatto della serialità televisiva sulla letteratura…

Francesco Pacifico (nella foto di Musacchio e Ianniello, ndr), romano, nato nel ’77, torna in libreria con Le donne amate (Rizzoli), quattro anni dopo Class (Mondadori), libro dedicato agli italiani che vivono a New York, pubblicato anche negli Stati Uniti nel 2017 nella traduzione curata dallo stesso scrittore. Al centro della storia le donne che ruotano attorno al protagonista, dalla madre alla compagna, fino all’amante. Ambientato tra Milano e Roma, il romanzo offre uno scorcio su un certo mondo culturale italiano: oltre al protagonista che lavora per una casa editrice, ci sono l’amico scrittore, l’amante editor, conoscenti che lavorano negli uffici stampa…

Lo scrittore romano collabora con riviste, quotidiani e siti letterari, tra cui Repubblica e Il Tascabile, traduce libri dall’inglese, oltre ad aver recentemente lavorato con l’autrice Chiara Barzini all’edizione italiana di Terremoto (Mondadori), esordio della scrittrice, inizialmente pubblicato (e scritto) in inglese.

Francesco Pacifico si racconta con ilLibraio.it a partire dal suo nuovo libro e parla di scrittura e traduzione.

Perché proprio in questa fase storica, un libro sulle donne attorno a un intellettuale?
“C’è un legame con l’attualità. Tre anni fa, quando ho iniziato a lavorare al romanzo, sentivo che gli equilibri stavano cambiando, per cui mi sembrava interessante scrivere di questo argomento. La mia narrativa nasce sempre da temi che voglio approfondire, è una ricerca di risposte. Come abbiamo visto, col tempo i nodi sono venuti al pettine”.

Nel romanzo vediamo Francesco, amico del protagonista, che perde il lavoro in una rivista. Lei conosce bene il mondo culturale americano: quali sono le principali differenze tra le riviste letterarie statunitensi e quelle italiane, dove negli ultimi anni sembra esserci un certo fermento, con una nuova generazione di autori che ha trovato spazio?
“Quello che porto di italiano in America di solito viene apprezzato, infatti l’approccio delle riviste italiane alla letteratura e alla cultura è molto ‘fedele’, non segue troppo i trend e le mode, e questo è ammirato negli Stati Uniti. Però, siccome siamo un po’ ‘provinciali’, facciamo fatica a riconoscerlo. Gli americani, invece, si sanno organizzare, hanno un’attenzione estetica e una serietà che da noi hanno solo i milanesi. In generale in Italia il rapporto tra le copertine e i contenuti è troppo cartesiano, non tiene conto dell’aspetto”.

Come è stato riscrivere Class in inglese?
“Sono cresciuto con i libri e la musica americani, quindi sono stato molto contento di essere pubblicato anche lì. Quando sono stato a New York per la prima volta, dieci anni fa, ho conosciuto editor e intellettuali con cui mi sono confrontato sul libro che stavo scrivendo allora, Storia della mia purezza, e mi sono accorto di come tutti lo prendessero sul serio. Questi rapporti sono stati fondamentali e mi hanno mostrato come in Italia ci sia una certa disattenzione per il libro come oggetto artistico. Nel caso di Class questa serietà americana nei confronti del libro mi è servita per riscriverlo: mi sono reso conto che all’edizione italiana mancava una revisione, al testo era stata dedicata poca cura. Rivederlo e tradurlo con l’editor americano mi ha dato la possibilità di completarlo, oltre che di giocare davvero con la ‘guerra’ tra le due lingue”.

Si tratta di un’esperienza simile alla traduzione di testi scritti da altri (lei è anche un traduttore dall’inglese, ndr) o è del tutto diversa?
“Riscrivere il mio libro in inglese è stato un lavoro terribile, ma bellissimo. E molto diverso da quello che è invece tradurre. Credo esistano dei ‘muscoli dello scrittore’ che si possono allenare anche lavorando a qualcosa con cui non si ha un legame. Questo è il caso della traduzione, un’attività che permette di leggere lentamente – nessuno legge più lentamente del traduttore – e di simulare di essere un altro, scrivendo senza però provare il peso interiore causato dal legame con la storia. Finora ho scritto quattro libri miei e ne ho tradotti una ventina, quindi è come se ne avessi fatti ventiquattro”.

La riscrittura in inglese si ripeterà anche con il nuovo libro?
“Sto curando con un traduttore la versione in inglese della prima parte del nuovo libro, che la mia agente proporrà a degli editori stranieri”.

Come pensa si sia sviluppata la sua scrittura nel tempo? Da quali fattori è influenzata?
“Per scoprire aspetti più originali e profondi dentro di sé, bisogna sperimentare e mettersi in gioco, abbassare la guardia. Si tratta di un percorso che ha visto diverse tappe. A vent’anni leggevo i classici e scrivevo male, allora ho deciso di iniziare a prendere appunti di quello che vedevo per imparare a comprendere le combinazioni delle cose intorno a me. Quando si scrive, si tende a voler descrivere cose che abbiano senso, ma nella realtà avviene piuttosto una giustapposizione di eventi. Lavorando al secondo romanzo ho notato che non riuscivo a scrivere se leggevo narrativa contemporanea di qualità mediocre: ho scoperto che per scrivere ho bisogno di leggere opere molto belle. Dopo la prima stesura di Class l’ho percepito come un testo molto freddo, poi ho letto Virginia Woolf e ho avuto una rivelazione, così ho riscritto il libro con una nuova sensazione di ricerca della verità. Ma anche piccoli esperimenti portano cambiamenti…”.

Ad esempio?
“Alcuni anni fa mi sono reso conto che riscrivere un testo partendo dallo stesso file Word mi portava a non eliminare quasi nulla. Così ho deciso di provare una nuova tecnica, partire da un file vuoto, come si faceva un tempo scrivendo a mano o a macchina: finita e corretta una stesura, la si riscriveva da capo. E ho scoperto che in questo modo ero capace di ricostruire un flusso più fedele ai cambiamenti della storia”.

Crede che la serialità, oltre a modificare la fruizione delle storie, stia anche cambiando il modo in cui gli scrittori scrivono e si pongono davanti alla stesura di un nuovo romanzo?
“Se si rilegge oggi la letteratura di una ventina di anni fa caratterizzata dalla brevità, penso ad esempio alle prose poetiche di Albinati, sembra molto più sensata di quanto apparisse allora. La frammentazione e la brevità ci portano ad avere qualcosa che si legge subito, velocemente. Io stesso sto ascoltando l’audiolibro da trenta ore di Tom Jones perché è più semplice ascoltare che leggere un romanzo del genere, in cui per decine di pagine ‘non accade nulla’. Quindi sì, è un problema di cui va tenuto conto”.

Qual è l’ultima opera – letteraria, cinematografica, ma anche una serie tv – che l’ha colpita per l’innovazione nel linguaggio e nella narrazione?
“Penso a Vizio di forma, un film di Paul Thomas Anderson, regista che agli inizi era molto barocco, ma che sta diventando sempre più leggero. La storia è tratta da un libro di Pynchon ed esprime il concetto di vero cinema. Il film è ambientato a Los Angeles nel 1970 e si sviluppa attraverso inquadrature da vicino: mi ha fatto riflettere per come il regista usa la sua tecnica senza però farne sfoggio, quasi di nascosto”.

E le serie tv?
“Mi sembrano meri oggetti di consumo, se si esclude qualche eccezione, come Mad Men o The Wire. Ho appena visto un nuovo show di Netflix, Standup for drummers, di Fred Armitsen, già co-creatore di Portlandia, in cui il comico (e batterista) fa solo battute sulla musica e i batteristi davanti a un pubblico composto da batteristi. Un’idea geniale!”.

Fotografia header: Francesco Pacifico - foto di Musacchio e Ianniello

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