Come si fa a essere disoccupati e sentirsi comunque qualcuno in una società che per secoli ha considerato il non avere un lavoro un crimine di lesa maestà? La scrittrice Eleonora Mazzoni racconta su ilLibraio.it “Io, Daniel Blake”, il nuovo film di Ken Loach. In cui il regista inglese torna a raccontare la crisi

I veri poveri, in questo mondo, meritevoli di assistenza e di compassione, non sono altro che quelli che, per ragione d’età o di malattia, si trovano condannati a non potersi più guadagnare il pane col lavoro delle proprie mani“. Lo scriveva Collodi nel suo Pinocchio, e continuava: “Tutti gli altri hanno l’obbligo di lavorare: e se non lavorano e patiscono la fame, tanto peggio per loro”.

Io, Daniel Blake

Una dichiarazione di fiducia così piena nel lavoro accadeva un secolo e mezzo fa. Guardando
Io, Daniel Blake, il nuovo film di Ken Loach, si ha invece l’impressione che il lavoro sia scomparso dalla società e sopravviva o fuori dalla legalità o in coloro che si occupano dei sussidi di disoccupazione per chi, appunto, non lavora. Oppure in coloro che, prestando servizio nelle banche del cibo, accolgono i senza lavoro.

Lo scenario del film è apocalittico. Non a caso inizia con lo schermo nero e i dialoghi tra il protagonista, Daniel, ovvero un maturo carpentiere di Newcastle che ha avuto un infarto, e un funzionario che deve verificare se il suddetto carpentiere abbia sì o no diritto a un’indennità di malattia. L’ottusità spietata della macchina burocratica tocca in questa conversazione vertici così kafkianamente surreali da indurre lo spettatore più volte a ridere. Ma è un riso che si spegne nel momento in cui Daniel viene reputato non bisognoso di alcun sussidio, e quindi si ritrova all’improvviso inabile, in età non ancora pensionabile, senza più entrate. Ed è in uno dei suoi tanti giri a vuoto per gli uffici, in attesa di un riesame del suo caso, che il protagonista incontra un’altra “ultima della terra”, Katie, una giovane con due figli avuti da altrettanti uomini che l’hanno subito mollata.

loach cannes

Lui senza più moglie, lei senza marito. Entrambi senza lavoro. Quel “senza”, quella mancanza li unisce.

“Abbiamo bisogno ogni tanto di avere il vento in poppa!”, ripete Daniel citando una delle frasi preferite della sua defunta moglie psicopatica. E se il vento in poppa non tira mai? Se non servono a farlo alzare neppure le regoline dei motivatori che cercano di stimolare i tanti rimasti ai margini? “Fatevi notare, fatevi furbi”, dicono loro con disinvoltura e meccanicità: ma se un datore di lavoro legge un curriculum in secondi, come si fa a farsi notare? Come si fa ad uscire dalla folla, se uno dentro la folla dei disperati è immerso? Come si fa, se uno è parte della lunga, interminabile fila che aspetta di fare la spesa alla banca del cibo? Se dalla fame non ci si vede più, non si ragiona, si sviene quasi e si è costretti ad aprire una scatoletta di sugo e a metterselo in bocca a manate davanti a tutti, senza ritegno? Come si fa?

Io Daniel Blake 2

“Nessuno gli dà mai retta, perché dovrebbe dar retta a qualcuno?”, spiega Katie a Daniel a proposito di suo figlio, costantemente nervoso e arrabbiato. Ecco, allora, che forse qualcosa si può fare, ad esempio si può cominciare a darsi retta l’un l’altro. Finita l’epoca dell’abbondanza, forse questo “darsi retta”, suggerisce Loach, è un ingrediente buono per continuare a campare con dignità. Perché il mondo non va avanti solo grazie allo Stato, alla burocrazia, all’economia, che può girare oppure incepparsi, ma con la comprensione e l’ascolto reciproco. Perché dando retta all’altro, si percepisce il proprio sé. Non è scontato sentirsi qualcuno in un posto che per qualche secolo ha considerato il non riuscire un crimine di lesa maestà, in quanto un vinto “assassina tutte le virtù borghesi su cui poggia la società, la quale scaccia con orrore tutti i Mario seduti davanti alle loro rovine”, come scriveva Balzac. Daniel a un certo punto ha bisogno di scriverlo sui muri a caratteri cubitali con la vernice nera, di essere qualcuno: “non sono un cliente, un lavativo, sono un uomo, non un cane, esigo i miei diritti, sono un cittadino“.

Riecheggia quasi il lynchiano “non sono un elefante, non sono un animale, sono un essere umano”. Ma come l’uomo elefante nasconde dietro la deformità esteriore la capacità di amare di un Romeo, così un povero che “dà retta” all’altro cela dietro la sua miseria una grande nobiltà d’animo. A 80 anni Loach ci regala una riflessione spietata su un mondo sempre più cinico, distratto, inutile, e una fiducia assoluta negli esseri umani.

L’AUTRICE – Eleonora Mazzoni è attrice e scrittrice. Ha pubblicato Le difettose (Einaudi, 2012), Gli ipocriti (Chiarelettere, 2015) e La testa sul tuo petto. Sulle tracce di San Giovanni, appena uscito per la San Paolo edizioni. Le difettose è diventato uno spettacolo teatrale, interpretato da Emanuela Grimalda e con la regia di Serena Sinigaglia. Il 13, 14, 15 ottobre alle 21 andrà in scena al Teatro Quarticciolo di Roma, il 21 ottobre al Teatro del Lido di Ostia.

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