A tre anni dalla scomparsa, il pensiero di John Berger continua a brillare e destare interesse, come conferma la nuova edizione di “E i nostri volti, amore mio, leggeri come foto”. Per alcuni potrebbe essere il libro da cui partire per conoscerlo, per altri quello a cui approdare. Un’opera inclassificabile, densissima, composta da saggi, poesie, riflessioni e brevi passaggi narrativi – L’approfondimento

A tre anni dalla scomparsa, il pensiero di Berger continua a brillare e destare interesse, tanto che proprio in questi giorni esce, anzi ri-esce, una nuova edizione di E i nostri volti, amore mio, leggeri come foto.

Pubblicato originariamente nel 1991 e uscito in Italia prima per L’ancora del Mediterraneo nel 2002 e poi per Mondadori nel 2008, E i nostri volti, amore mio, leggeri come foto trova oggi casa, sempre nella bella traduzione di Maria Nadotti (a tutti gli effetti ormai voce italiana e tra le massime esperte di Berger), nel catalogo del Saggiatore, che si sta occupando di riunire l’intera opera di Berger con una cura e una passione reminiscenti, per certi versi, quelle di Nottetempo per l’opera di Susan Sontag.

John Berger

Questo libricino, che piccino lo è solo nella mole e nel numero di pagine, è in realtà un’opera inclassificabile, densissima, composta da saggi, poesie, riflessioni e brevi passaggi narrativi che riuniscono non solo quasi tutti i nodi tematici principali del pensiero di Berger, ma anche le varie forme attraverso cui lo ha comunicato.

L’opera è divisa in due partiuna volta e qui – le quali contengono una serie di brevi testi e poesie (o combinazioni dei due) che sfiorano direttamente o tangenzialmente i due grandi temi del libro, il tempo e lo spazio.

I testi si pongono come una successione di brevi istantanee di pensiero che scompongono i concetti di tempo e spazio per trasformarli in un terreno fertile in cui seminare, lasciar gemmare e sbocciare le tante storie, emozioni ed esperienze che compongono il libro. Si tratta di un terreno sospeso tra percezione fisica e mentale, uno spazio che è simile allo stato di dormiveglia in cui si mescolano elementi reali, desideri e immaginazione, in cui un secondo d’orologio può dilatarsi all’infinito e lo spazio di una stanza trasformarsi in una frontiera di montagna.

Anche la scrittura, tesa tra diverse interpretazioni e percezioni del tempo e dello spazio, assume forme via via diverse – essendo ogni forma espressione di una differente attitudine ed esperienza del racconto. Se le storie tendono a procedere verso una conclusione, dice Berger (forse in maniera un po’ troppo dicotomica), le poesie sono “incuranti degli esiti”, “portano una sorta di pace”, sono espressione di una lingua che ha riconosciuto e dato rifugio all’esperienza. Sono più simili alle preghiere, con la differenza che mentre nella religione la Parola è il primo attributo di Dio, nella poesia laica le parole sono presenza stessa prima ancora che mezzo di comunicazione. Sono, in altre parole, un “luogo, dove il tempo non ha finalità”, ma è “incluso e compreso”.

Berger (foto di Paolo Benzi)

Berger (foto di Paolo Benzi)

La differenza che intercorre tra storia e poesia è la stessa che vi è tra l’istante fotografico e quello pittorico, ma anche tra visibile e invisibile, movimento e immobilità, apparenza ed essenza. Eppure questi elementi, nella visione bergeriana, non sono in contraddizione, sono bensì opposti che si contengono a vicenda e che danno vita, nella loro unione, alla totalità dell’esperienza umana.

Ogni movimento nello spazio, che sia per emigrare, per andare all’ufficio postale a spedire un pacco alla donna amata, per guardare un quadro o per superare una frontiera di montagna mentre il frontaliere è distratto da una lepre, crea una distanza, uno spostamento, in un certo senso una perdita, i quali sono indispensabili per la messa a fuoco dell’esperienza stessa, per un avvicinamento all’Essenza e per il ritorno a quell’unica casa umana che non ci è ostile – la lingua.

Quello di lavorare sulle distanze e le vicinanze, sulle separazioni e i ricongiungimenti, come scrive con profonda sensibilità Maria Nadotti nella postfazione, è il “modo di vedere” di Berger, che è insieme pratica dello spazio e del tempo, ma anche una modalità di sguardo “alterata” che permette di portare fuori di sé per vedere, dove vedere non è una pratica designata solamente all’organo della vista, ma “un più complesso apparato dei sensi e della memoria coniugato con una soggettiva e mobile presenza al mondo e con la capacità di tradurla in racconto”.

E i nostri volti, amore mio, leggeri come foto diventa allora proprio il racconto questa presenza al mondo attraverso brevi istanti, istantanee e preghiere. Attraverso l’amore – e da quella casa che è la lingua – Berger in questo libro ritraccia i confini del reale, facendo posto all’indicibile, ma anche al dolore.

Tra le espressioni miste di sofferenza e piacere dei volti di certi dipinti di Caravaggio, di fronte all’insaziabile anelito di realtà che trasuda dalle tele di Van Gogh, tra le braccia della donna amata mentre attorno infuria la crudeltà del mondo, lo sguardo quasi pànico di Berger si muove cercando di oltrepassare ogni forma di confine, tanto quello spaziale e temporale quanto quello tra osservatore e oggetto osservato.

Sulla scia di questi frammenti, noi lettori seguiamo il peregrinare inesauribile del pensiero di Berger, dell’uomo che scrive e manda doni d’amore alla sua donna distante, dei migranti che abbandonano la propria terra in cerca di lavoro o per scappare dalle guerre, degli abitanti dei villaggi che alzano il volto al cielo, di Anna Achmatova che scrive al figlio in prigione, della poetessa Nazik al-Mala’ika, dei gatti che si leccano al sole, della lepre che scappa oltre la frontiera, delle stelle che brillano in cielo, del mondo che ci circonda e di cui siamo parte.

E i nostri volti, amore mio, leggeri come foto è come un album di canzoni di cui si percepisce l’insieme ma che fermato il giradischi continua a risuonare solo per frammenti, è una raccolta di poesie che come spilli fermano il mondo alla pagina, è un trattato sulla nostra percezione di spazio e tempo e della loro rappresentazione attraverso la parola, è un saggio sull’arte pittorica. È esperienza incarnata nella lingua, un viaggio per coprire la distanza che che ci separa dall’Altro e dal mondo, un libro di preghiere e un album di fotografie.

È infine John Berger, nella forma di un caleidoscopio che riunisce i frammenti di tutte le sue opere: dai saggi sullo sguardo (Modi di vedere, Sul guardare) a quelli sull’arte (Paesaggi, Ritratti), dai romanzi (To the wedding, G., Da A a X. Lettere di una storia) alle poesie e ai foto-testi.

Per alcuni potrebbe essere il libro da cui partire per conoscerlo, per altri quello a cui approdare. Di certo è un’opera a cui tornare, da scomporre e assaporare, da sfogliare e rileggere come si ascoltano certi brani musicali a distanza di tempo, per ricordare una certa emozione o ritrovarsi brevemente altrove.

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