Incontro con Karl Ove Knausgård autore di La mia lotta

Dalla morte alla vita. Dall’essere figlio all’essere padre. È questo il passaggio compiuto da Karl Ove Knausgård in La mia lotta (2). Lasciato alle spalle il triste ricordo paterno, Knausgård si apre alla gioia di una famiglia tutta sua, di una nuova vita in Svezia, accanto alla seconda moglie, Linda, e ai loro tre bambini. Ma la lotta non è certo finita: per quanto desiderata e ricca d’amore, infatti, la vita di coppia è una sfida quotidiana, la continua ricerca di un equilibrio tra le proprie esigenze e quelle dell’altro, tra il bisogno di condividere e la difesa dei propri spazi e dei propri silenzi, l’urgenza di restare fedeli a se stessi e l’urgenza della scrittura. Abbiamo incontrato il fascinoso e schivo scrittore norvegese.

D. Il primo volume di La mia lotta ruotava attorno al rapporto con il padre e alla sua morte; quali sono invece i temi principali di La mia lotta (2)?

R. Si può dire che siano esattamente l’opposto: la vita, l’amore, la nascita dei figli. Eppure in qualche modo l’argomento è speculare, perché c’è sempre un mare di banalità quotidiane interrotto da un evento molto forte in cui si concentrano tutte le energie, là la morte, in questo caso l’innamoramento. I casi sono opposti, ma le emozioni che mi suscitano sono le stesse, tali da escludere tutto il resto.

D. Nello spostamento dell’ottica da figlio a padre, e parte di una nuova famiglia, come cambiano le “lotte” che si è trovato ad affrontare?

R. La differenza è tra avere responsabilità unicamente verso di sé e avere dei doveri nei confronti dei figli, con il conflitto tra dovere e libertà che ne consegue. Prima di diventare padre avevo tutto il tempo libero del mondo e tuttavia non potevo riconoscerlo davvero, perché solo quando inizi a dover rendere conto agli altri del tuo tempo inizi a riconoscere la libertà. È stato difficile da gestire soprattutto nei primi due anni, ma adesso riesco a cavarmela molto meglio.

D. In La mia lotta (2) descrive il suo trasferimento dalla Norvegia alla Svezia, due paesi molto vicini e spesso percepiti anche come simili ma che in realtà rivelano un divario profondo. Quali sono le differenze maggiori tra le due culture?

R. Prima di trasferirmi a Stoccolma pensavo che non ci fossero differenze con la Norvegia, ma una volta lì avevo l’impressione che ci fosse qualcosa di sbagliato nella Svezia, anche se non riuscivo a inquadrarlo con precisione. È difficile da spiegare in generale, perché quando hai a che fare nel concreto con le persone sono tutti davvero gentili e premurosi, ma si può dire che la mentalità sia più rigida e austera; tutto deve essere politicamente corretto e praticamente non esistono opinioni diverse da quelle dominanti. In Norvegia questo non succede, è un paese in qualche modo più selvaggio.

D. Nel libro scrive che i momenti più intensi della sua vita sono l’innamoramento per sua moglie Linda e la nascita della sua prima figlia, ma più di tutti la scrittura, specialmente quando capisce di aver trovato la direzione giusta. È davvero la priorità per lei, e come si concilia con la sua quotidianità?

R. Non direi che sia proprio una priorità, perché naturalmente se fosse una questione di vita o di morte sceglierei la mia famiglia; però sì, scrivere è il mio lavoro ed è molto importante, se non riesco a scrivere perché mi viene sottratto del tempo mi sento frustrato e di conseguenza diventa difficile vivermi accanto. Si generano delle tensioni in famiglia, ma penso che sia un equilibrio difficile da trovare indipendentemente dal tipo di lavoro che uno svolge.

D. Non teme che riversare tutto questo materiale autobiografico nella scrittura possa modificare la sua percezione dei ricordi, che il raccontare possa portare a creare qualcosa di non vero?

R. È esattamente così, per me scrivere significa distruggere; nei miei primi libri, che erano di finzione, ho usato dei ricordi come materiale narrativo, con il risultato di non riuscire più a distinguere quelli veri da quelli inventati. I ricordi vengono distorti dalla scrittura, che crea qualcosa di diverso dal punto di partenza. Quando ne La mia lotta (1) ho descritto la morte di mio padre, la sua famiglia si è opposta alla rappresentazione che ne ho dato, sostenendo che le cose non si fossero svolte così. Il sesto volume del La mia lotta tratta proprio queste reazioni diverse di fronte agli eventi riportati nel libro che portano le persone a chiedersi se siano successi davvero. Penso che l’instabilità sia una condizione propria dei ricordi e la scrittura non fa che accentuarlo.

D. È da qui che deriva la sua avversione per la finzione in letteratura?

R. In parte sì, e in parte dalla saturazione di finzione presente nella nostra società: siamo totalmente assediati dalla finzione e dalla narrativa, non solo per quanto riguarda i libri e i film, ma anche i giornali e le notizie in televisione hanno la stessa forma. In ogni caso non è un’avversione assoluta, ma nello specifico del progetto della Mia lotta non poteva funzionare, non potevo descrivere il mio mondo attraverso l’invenzione. Ora che ho finito con la descrizione della vita vera devo tornare alla finzione, e questo per me rappresenta la sfida più grande: reinventarmi come scrittore.

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