Negli ultimi anni si parla sempre più spesso della possibilità di lavorare meno ore a settimana. Su ilLibraio.it l’intervento di un esperto, Lorenzo Cavalieri: “Il tema non è la diminuzione dell’orario di lavoro, ma la crescente irrilevanza del concetto di orario di lavoro”. Molto, però, dipende dal tipo di impiego… – L’analisi

Negli ultimi anni si parla sempre più spesso della possibilità di lavorare meno ore a settimana. In Svezia dall’anno scorso si sperimenta la giornata di lavoro da 6 ore invece che da 8 ore. Qualche economista ricorda sorridendo che nel 1928 il leggendario Keynes aveva previsto che nel 2028 avremo lavorato 15 ore alla settimana.
Al di là delle previsioni è un dato inequivocabile che negli ultimi 15 anni le ore di lavoro settimanali sono scese da 39 a 37 ore nei paesi OCSE e in Italia da 37 ore e mezzo a 35 ore e mezzo.

Solitamente commentiamo questi dati come buone notizie:
– avremo più tempo per il nostro benessere e quello dei nostri familiari;
– avremo più tempo per consumare e “spingere” l’economia;
– forse ci sarà lo spazio per condividere in modo più equo la “risorsa lavoro” secondo il vecchio slogan “lavorare meno lavorare tutti”;

In realtà quando guardiamo a queste informazioni guardiamo al lavoro con le vecchie categorie del ‘900 e ci immaginiamo impiegati che svolgono meccanicamente la stessa mansione e operai che mettono le mani su una linea di produzione.

È un mondo del lavoro che non esiste più come sperimentiamo tutti i giorni.

Il tema non è allora la diminuzione dell’orario di lavoro, ma la crescente irrilevanza del concetto di orario di lavoro.

L’orario di lavoro è sempre meno importante. Non mi interessa quanto lavori e dove lavori, mi interessa che tu produca un certo output, che tu raggiunga un certo obiettivo.

Sempre meno lavori sono lavori da “orario”. E anche quei lavori regolati contrattualmente con un preciso orario di lavoro sono sempre più governati in concreto dalla logica della flessibilità organizzativa. Una volta ridevamo di Fantozzi e della sua corsa a timbrare l’uscita delle 5 del pomeriggio. Oggi nell’ufficio sinistri di una compagnia assicurativa i più giovani (e anche i meno giovani) lavorano per obiettivi e hanno dei clienti (interni-esterni) da servire. Non possono più guardare ossessivamente all’orologio.

Sempre di più, quindi, queste statistiche sugli orari di lavoro non sono in grado di raccontare il lavoro per come davvero si consuma nella quotidianità. Se ne è accorta anche la politica con le dichiarazioni sull’orario di lavoro del ministro Poletti del novembre scorso.

Riassumendo: se sei un commerciale, un ricercatore, un manager, un consulente, un produttore di contenuti editoriali e sul tuo contratto di lavoro viene scritto 30 ore invece che 35 ore, per te cambia davvero poco perché la variabile che impatterà davvero sui tuoi ritmi di vita saranno gli obiettivi che ti verranno dati, non l’orario di riferimento.

Le cose teoricamente cambiano se sei un un operaio o un impiegato contabile. A parità di stipendio un cambiamento di contratto che portasse la tua settimana lavorativa da 35 a 30 ore sarebbe apparentemente una gran bella notizia. Tuttavia occorrerebbe chiedersi: Perché? Perché mi vogliono fare un regalo o perché hanno meno bisogno di me? E quelle 5 ore di lavoro differenza chi le svolgerà? Un altro lavoratore? No. I dati ci dicono di no. Le 5 ore di lavoro di differenza ce le mette la tecnologia. Quella stessa tecnologia che potrebbe portare il tuo datore di lavoro a proporti domani un part time e dopodomani a licenziarti.

In sintesi, la diminuzione dell’orario di lavoro non è in sé né una buona né una cattiva notizia. Dipende dalla parte del mercato del lavoro in cui ti trovi. È una notizia quasi irrilevante se sei in quella parte del mercato del lavoro per cui l’orario è irrilevante (attività a valore aggiunto intellettuale/imprenditoriale/relazionale/creativo per cui conta solo se raggiungi gli obiettivi). Se sei invece in quella parte del mercato del lavoro per cui l’orario è rilevante (timbro e basta, le mie mansioni sono esecutive e ripetitive, i miei risultati personali contano solo fino a un certo punto) in prospettiva è una brutta notizia. Vuol dire che siamo sempre meno necessari.

L’AUTORE – Lorenzo Cavalieri è laureato in Scienze Politiche e ha conseguito l’MBA presso il Politecnico di Milano. Dopo aver ricoperto il ruolo di responsabile commerciale in due prestigiose multinazionali, si occupa dal 2008 di selezione, formazione e sviluppo delle risorse umane. Attualmente dirige Sparring, società di formazione manageriale e consulenza organizzativa.
www.lorenzocavalieri.it è il blog in cui raccoglie i suoi articoli e interventi.
È in libreria per Vallardi  Il lavoro non è un posto.

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