Perché parlare di femminismo nel 2020? Perché l’argomento non si è esaurito, e purtroppo i passi da fare sono ancora molti. Ne sono consapevoli Giulia Cuter e Giulia Perona, ideatrici del progetto Senza Rossetto, in uscita con il loro primo libro, scritto a quattro mani: “Le ragazze stanno bene” ha uno spirito divulgativo e parte da stereotipi e pregiudizi che ruotano attorno al ruolo della donna… – Su ilLibraio.it l’approfodimento sul saggio e un capitolo (in cui, tra le altre cose, si affronta il tema del consenso e si parla di #metoo)

Chi ha bisogno di parlare ancora di femminismo nel 2020? Tra discorsi mainstream, narrazioni a tema e approfondimenti avanguardistici, potrebbe sembrare che l’argomento sia ormai stato esaurito. Eppure non è affatto così. Ne sono consapevoli Giulia CuterGiulia Perona (nella foto di Alma Vassallo, ndr), autrici di Senza rossetto, newsletter e podcast al femminile arrivato in finale ai Macchianera Awards, gli “Oscar del web italiano”, che ora firmano il loro primo libro, Le ragazze stanno bene (HarperCollins Italia).

LeRagazzeStannoBene

Se si volesse prendere un riferimento illustre, si potrebbe definire un Dalla parte delle bambine 2.0, saggio cult in cui la pedagogista Elena Gianini Belotti dà avvio a una riflessione sulla femminilità, mostrando come le differenze tra maschio e femmina non sono dovute a fattori innati, ma a condizionamenti culturali.

Proprio come il testo di Belotti, diventato un caposaldo della saggistica, il libro di Cuter e Perona ha uno spirito tutto divulgativo e, partendo dagli stereotipi e pregiudizi che ruotano attorno al ruolo della donna, affronta svariati argomenti: dal caso Weinstein del 2017 all’introduzione del pronome neutro “hen” in Svezia, passando per la mascolinità tossica, il mansplaning, l’ossessione delle donne per la bellezza e le molteplici forme di misoginia presenti nella nostra società.

Si parla di revenge porn e di pornografia, di quella che è stata definita teoria del gender, di incel, di body shaming e body positive. Si citano speech famosi come Perché ho smesso di essere abbastanza uomo di Justin Baldoni – celebre per aver interpretato il ruolo di Rafael nella serie Jane the Virgin -, in cui l’attore sfida gli uomini a essere emotivi e vulnerabili; spot memorabili come We belive: the best men can be della Gillette o il report The Real Truth About Beauty commissionato dal marchio Dove, in cui tremiladuecento donne parlano della percezione del proprio corpo. Ma anche trasmissioni della tv generalista come Uomini e donne di Maria De Filippi.

E poi ancora fatti di cronaca, come quello dello studente di ventidue anni che dichiara di non aver mai avuto un rapporto sessuale con una ragazza in un video YouTube e che, subito dopo, ammazza i suoi tre coinquilini e inizia a sparare ai passanti per strada; oppure inchieste, come quella del giornalista Luca Zorloni sui gruppi segreti di Telegram dove uomini si scambiano foto, video e numeri di donne e ragazze chiamandole “troie”, “carne da fottere e stuprare”.

C’è il capitolo dedicato al corpo, quello dedicato alle relazioni e quello dedicato al sesso, in cui vengono portate alla luce situazioni piuttosto comuni nella vita delle ragazze, come quando gli uomini si rifiutano di indossare il preservativo durante un rapporto sessuale. Grande rilievo alla parte sul matrimonio, sulla maternità e, naturalmente, a quella sul lavoro, dove la disparità tra uomo e donna si sente parecchio (gender gap), anche per quanto riguarda la remunerazione economica. Una disparità che, secondo il report 2019 del World Economic Forum, finirà tra 99,5 anni.

A tutto ciò, si mescolano storie personali, racconti della prima mestruazione, del primo bacio, della perdita della verginità, dei tradimenti, dei periodi in erasmus e delle esperienze lavorative. Ne viene fuori un diario che è anche una panoramica del vasto discorso femminista che si sta sviluppando in questi anni. Un resoconto che racchiude le grandi e piccole rivoluzioni che sono state compiute, puntando i riflettori sui passi che ancora si devono compiere. Perché sì, le ragazze stanno bene, ma potrebbero stare molto, molto meglio.

Per gentile concessione dell’editore, su ilLibraio.it un capitolo

Giochi di potere

IL CONSENSO

Dici no, ma in realtà vuoi dire sì: quante volte vi è capitato che la vostra parola e i vostri desideri venissero messi in dubbio? La tendenza delle società patriarcali a non prendere sul serio le donne ci porta a scontrarci con un’altra enorme questione: il consenso. Secondo il vocabolario Treccani possiamo definirlo come una conformità di voleri o meglio come il consentire a che un atto si compia, permesso, approvazione: un concetto semplice, quasi lampante, ma che si complica enormemente quando viene applicato alla sfera sessuale. Fatta eccezione per i casi in cui ci si trova di fronte a quella che comunemente viene percepita come una vera aggressione sessuale – imposta con la forza, la violenza e la minaccia – l’idea di consenso infatti sfuma di fronte a situazioni più ambigue, per esempio i rapporti sessuali tra adulti che si conoscono, l’assenza di un rifiuto esplicito da parte della vittima, la mancata penetrazione, il consenso concesso e poi revocato durante l’atto sessuale. Questa difficoltà di interpretazione si riflette anche nella giurisdizione, spesso incapace di dare ascolto alla volontà delle vittime di violenza e che, anzi, tende ad attribuire loro parte delle colpe. In generale il diritto penale in materia sessuale si può dividere in tre macrocategorie: il modello consensuale, il modello limitato e quello vincolato. Il primo dà rilevanza massima al consenso: per intenderci potremmo tradurlo in un eloquente Yes means yes; laddove il consenso esplicito e valido manchi (quindi la persona non deve essere in stato di semicoscienza o alterazione e neppure sottoposta a pressioni psicologiche o coercizione di alcun tipo) si può parlare di violenza sessuale. Il modello limitato, al contrario, pone l’attenzione sul dissenso, cioè, in breve No means no: la violenza sessuale viene considerata tale se la vittima si è dichiarata apertamente contraria. Infine, il modello più diffuso, quello vincolato, si basa sul principio che le violenze sessuali per essere ritenute tali e quindi perseguibili devono rispondere a determinate caratteristiche: violenza, minaccia e costrizione. Di questi modelli esistono infinite variazioni e applicazioni, e gli estremi positivi non mancano: per esempio la Francia, dove dal 2018 per molestie verbali rivolte a una donna per strada sono previsti fino a settecentocinquanta euro di multa; o la Svezia, che dal 2013 prevede che lo stupro sia valido non solo se la vittima è in stato di totale o parziale incapacità di intendere e di volere, ma anche se si trova in una posizione di evidente vulnerabilità. O ancora la Svizzera e la Gran Bretagna, che considerano violenza sessuale lo stealthing, ovvero la pratica di sfilare il preservativo durante un rapporto senza il consenso del partner. Dal 2011 esiste anche una convenzione del Consiglio d’Europa, nota come Convenzione di Istanbul, che è il primo documento internazionale giuridicamente vincolante volto a prevenire e contrastare la violenza sulle donne e quella domestica.

A livello legislativo l’Italia rientra nel modello vincolato, nonostante il concetto di violenza sessuale abbia subito una grande evoluzione negli ultimi trent’anni. Fino agli anni Ottanta i reati sessuali erano classificati come delitti contro la moralità pubblica e il buon costume, secondo la dicitura del codice Rocco in vigore dai tempi del Ventennio fascista. Solo nel 1981 vennero aboliti il delitto d’onore e il matrimonio riparatore (che prevedeva la cancellazione del reato di violenza sessuale qualora lo stupratore accettasse di sposare la vittima, anche minorenne), ma si dovette aspettare fino al 1996 perché lo stupro venisse identificato dal Codice penale come un delitto contro la persona e non contro la morale. In ogni caso, nonostante questi grandi passi avanti, a oggi nel Codice penale italiano la violenza sessuale è riconosciuta tale solo a una condizione: la presenza, come già si diceva, di violenza, minaccia e aggressione. Nella pratica, però, e con il passare del tempo la giurisprudenza si sta avvicinando sempre di più al modello consensuale: in più occasioni la Cassazione si è espressa a favore di un consenso sessuale pacifico, non necessariamente verbale, e che può essere revocato in qualsiasi momento. È bene anche ricordare che in Italia esiste un’età del consenso, ovvero un’età in cui una persona è considerata capace di dare un consenso informato ad avere rapporti sessuali, fissata indistintamente ai quattordici anni per rapporti eterosessuali o omosessuali, con alcune variazioni nel caso in cui i partner siano entrambi minorenni o in cui l’atto sessuale si consumi con un parente o con qualcuno che eserciti una qualsiasi forma di autorità sul minorenne.

Nel romanzo Città aperta di Teju Cole (Einaudi, 2013), il protagonista e narratore Julius è un giovane specializzando in psichiatria che si muove per le geografie newyorchesi ed europee riflettendo su musica, arte, letteratura, immigrazione e identità, districandosi tra flashback della sua infanzia in Nigeria e la sensazione di non appartenere a nessun luogo. Julius è il centro della sua stessa narrazione: in Città aperta non accade nulla, Julius è la sua storia.

Verso la fine del romanzo, però, succede qualcosa di dirompente: durante una festa a Washington Heights, l’amica che l’ha invitato accusa Julius di averla presa con la forza molti anni prima e dichiara di non averlo mai perdonato per questo. «A un certo livello ciascuno di noi deve prendere se stesso come il punto di taratura della normalità, deve immaginare che lo spazio della sua mente non gli è, non può essergli, interamente opaco. Forse è proprio quello che intendiamo per sanità mentale: pur ammettendo le nostre stranezze, non siamo i cattivi delle storie che viviamo. Anzi, è proprio il contrario: recitiamo sempre e solo la parte dell’eroe, e nel turbinio delle storie altrui, nella misura in cui quelle storie ci riguardano tutti, non siamo mai altro che eroici. […] E cosa succede quando, nella versione di qualcun altro, divento il cattivo?» si domanda Julius.

Raccontare la propria versione, mostrare come gli eroi guardati da un’altra angolazione possano diventare cattivi, è quanto hanno fatto milioni di donne nell’autunno del 2017 prima con l’hashtag #quellavoltache in Italia, seguito da #balancetonporc in Francia e poi con #MeToo nel mondo. Tutto ha inizio in ottobre, quando il New Yorker e il New York Times riportano le testimonianze di dodici donne che accusano il noto produttore cinematografico Harvey Weinstein di aggressioni e violenza sessuale. Nel giro di poche ore sono decine di migliaia le donne che su Twitter decidono di condividere le proprie esperienze di abusi e molestie sul luogo di lavoro, in famiglia, all’università, nel mondo dello spettacolo ma anche in situazioni più quotidiane e potenzialmente protette. La grande onda delle accuse travolge tutti e fa il giro del mondo: uomini del jet set hollywoodiano ma anche grandi registi italiani, politici, calciatori, Ceo di aziende internazionali, fotografi di moda, direttori di grandi testate, e ancora chef e direttori d’orchestra di fama mondiale. Tutti. Le accuse di molestie che hanno investito le società occidentali negli ultimi anni e che ora vengono genericamente identificate come movimento #MeToo hanno ricevuto critiche da più parti: in alcuni casi sono state paragonate a una caccia alle streghe, colpevole di aver finito col cancellare la zona grigia che separerebbe avances e molestie; in molti invece hanno sottolineato il rischio che il racconto della propria esperienza da parte delle vittime diventasse un’operazione fine a se stessa, incapace di trasformarsi in un vero e proprio movimento politico e sociale in grado di far valere le proprie rivendicazioni. È ancora presto per capire quale sarà l’eredità di questo momento storico, ma non possiamo ignorare l’aspetto fondamentale su cui ha contribuito a fare luce: e cioè che le molestie più che con il sesso hanno a che fare con il potere. Cos’hanno in comune Harvey Weinstein, Kevin Spacey e il tuo capo? Il potere di cui possono abusare, chiedendo favori sessuali alle persone che lavorano per loro, ma anche oltrepassando limiti che non andrebbero superati in un contesto professionale, dalla mano allungata al commento non richiesto. È proprio il potere a rendere problematico il concetto di consenso, perché è il motivo per cui le categorie socialmente più deboli si sentono costrette ad accettare sesso indesiderato. Come scriveva Joseph J. Fischel in un articolo apparso su Aeon nell’ottobre 2018: «Il consenso non risolve tutti i nostri problemi sociali o le ingiustizie riguardanti la sfera della sessualità. Proprio come acconsentiamo a lavori mortificanti, altrettanto spesso acconsentiamo a un sesso ingiurioso. Alcuni personaggi televisivi, critici di destra del movimento #MeToo, sostengono che si sia confuso lo stupro con il brutto sesso, ma il problema è proprio il fatto che facciamo del brutto sesso, non solo stabilire quando c’è stato uno stupro. Non intendo per brutto sesso del sesso insoddisfacente, come per esempio quando nessuno raggiunge l’orgasmo. Intendo sesso indesiderato, doloroso o concesso a malincuore, oppure che richiede l’uso di sostanze illecite per poter essere fatto». L’abuso di potere è solo una delle forme in cui si concretizza il sistema patriarcale in cui viviamo e il suo legame indissolubile con il concetto di proprietà, di sfruttamento e di dominio dell’uomo sulla donna. Altre, estreme, sono il femminicidio e la cultura dello stupro.

Il 26 aprile 1979, alle dieci di sera, Rai Due mandò in onda Processo per stupro, un documentario filmato al Tribunale di Latina durante il processo a quattro uomini denunciati per violenza carnale dall’allora diciottenne Fiorella.

Il documentario, pensato durante un Convegno internazionale sulla violenza sulle donne svoltosi la primavera precedente alla Casa delle donne di Roma, fu visto da tre milioni di italiani, mentre una seconda replica trasmessa nell’autunno successivo raggiunse addirittura nove milioni di spettatori. Processo per stupro sconvolse l’opinione pubblica italiana perché rese chiaro come gli avvocati che difendevano gli accusati tendevano a trasformare la vittima in un’ulteriore imputata: indagando i dettagli della violenza e della vita privata della donna, gli avvocati cercavano di screditarne l’accusa, perpetrando l’atteggiamento mentale per cui una donna perbene non può essere violentata. Se c’era stata una violenza, questa doveva essere stata provocata dalla vittima e, dato che non c’erano evidenti segni di violenza fisica o di resistenza, significava che lei era consenziente. Come fece notare l’avvocata dell’accusa, Tina Lagostena Bassi, nella sua arringa: «La vera imputata è la donna. E scusatemi la franchezza, se si fa così, è solidarietà maschilista, perché solo se la donna viene trasformata in un’imputata, solo così si ottiene che non si facciano denunce per violenza carnale. Io non voglio parlare di Fiorella, secondo me è umiliare una donna venire qui a dire Non è una puttana. Una donna ha il diritto di essere quello che vuole, senza bisogno di difensori. Io non sono il difensore della donna Fiorella. Io sono l’accusatore di un certo modo di fare processi per violenza».

Ma, nonostante l’evidenza cui furono messi di fronte milioni di italiani nel 1979, le cose ancora faticano a cambiare. Se da un lato grandi passi avanti sono stati fatti, per esempio la risoluzione dell’onu dell’aprile 2019 che ha riconosciuto e deciso di combattere l’uso dello stupro come arma di guerra, dall’altro assistiamo quotidianamente a episodi come quelli descritti in Processo per stupro. Pensiamo per esempio al processo contro i due carabinieri accusati di avere abusato di due studentesse americane a Firenze nel settembre 2017: come hanno riportato molti giornali, durante gli interrogatori alle studentesse è stato più volte tentato di porre domande come «Lei trova affascinanti, sexy gli uomini che indossano una divisa?», «Il carabiniere si è accorto che lei era ubriaca?» o ancora «Lei indossava solo i pantaloni quella sera? Aveva la biancheria intima?». Ancora oggi viviamo in una società in cui gli atteggiamenti, le leggi e la comunicazione dei media tendono a normalizzare e giustificare (quando non incoraggiare) la violenza sulle donne. Basta guardare a un altro fenomeno, fortemente collegato allo stupro e all’abuso di potere: il femminicidio. Secondo un rapporto Eures, nel 2018 in Italia centoquarantadue donne sono state vittime di femminicidio. Nell’85,1% dei casi sono morte per mano di uomini che conoscevano, nel 65,6% costoro erano i loro partner, attuali o precedenti. Il termine femminicidio è stato usato per la prima volta nel 1992 da Diana Russell nel libro Femicide: The Politics of woman killing che lo identifica come una vera e propria categoria criminologica in cui la vittima viene uccisa in quanto donna per mano di un uomo. Col tempo la teoria di Russell è stata ripresa e utilizzata per analizzare le varie forme di femminicidio; in particolare è stata usata dalle antropologhe, sociologhe e criminologhe messicane per indagare i fatti di Ciudad Juarez, dove dal principio degli anni Novanta ogni anno vengono assassinate centinaia di giovani donne. Secondo Marcela Lagarde il femminicidio è «la forma estrema di violenza di genere contro le donne, prodotto della violazione dei loro diritti umani in ambito pubblico e privato, attraverso varie condotte misogine – maltrattamenti, violenza fisica, psicologica, sessuale, educativa, sul lavoro, economica, patrimoniale, familiare, comunitaria, istituzionale – che comportano l’impunità delle condotte poste in essere tanto a livello sociale quanto dallo Stato e che, ponendo la donna in una posizione indifesa e di rischio, possono culminare con l’uccisione o il tentativo di uccisione della donna stessa, o in altre forme di morte violenta di donne e bambine: suicidi, incidenti, morti o sofferenze fisiche e psichiche comunque evitabili, dovute all’insicurezza, al disinteresse delle istituzioni e alla esclusione dallo sviluppo e dalla democrazia». Parlare di femminicidio, quindi, non significa dire che è morta una donna, ma che quella donna è morta per mano di un uomo in un contesto sociale che giustifica e avvalla la violenza maschile. Pensiamo al linguaggio utilizzato dai media per raccontare questi delitti: raptus di follia, uomini che amano troppo, delitti passionali sono solo alcuni dei modi per parlare del femminicidio che troviamo nei titoli di giornale. Termini che svalutano, minimizzano e sottovalutano la pervasività di questo fenomeno, che mettono al centro della narrazione gli uomini, cioè i carnefici e non le vittime, e che equiparano l’uccisione di una donna a un gesto inconsulto, a una sciocchezza fatta senza pensare e non a un delitto contro la persona.

Quando non sono giustificati dalla passione o dal troppo amore, in alcuni casi si cerca anche di spiegare i femminicidi attraverso la presunta maggiore aggressività maschile rispetto alla donna, un assunto che si fonda su un altro grande tema che investe gli studi di genere, ovvero le differenze biologiche tra uomini e donne.

Può interessarti anche

«Ieri mi sono masturbato due volte in dieci minuti, a te è mai capitato?» mi ha chiesto un amico mentre gli parlavo delle difficoltà che stavo incontrando nello scrivere questo capitolo del libro. Parliamo spesso di diseguaglianza di genere, della nostra diversa percezione del mondo, io in quanto donna e lui in quanto uomo, ed è bello avere un amico con cui poterne discutere. Siamo abbastanza in sintonia sull’idea che le donne nel corso della Storia siano state abusate, strumentalizzate, castrate, ma c’è un punto su cui ci scontriamo sempre: l’idea che certe differenze tra uomo e donna siano giustificabili solo con la biologia. Lui è convinto che il testosterone abbia un ruolo decisivo nella maggiore aggressività dell’uomo e che sia la causa di buona parte dei comportamenti predatori e violenti; non dice che sia l’unico fattore, ma gli riconosce un’importanza di cui io continuo a dubitare. Non saremo mai d’accordo, anche la scienza non ha ancora trovato una risposta univoca a questa domanda.

Prendiamo come esempio il cervello umano: esistono diverse teorie che cercano di dimostrare come il cervello maschile e quello femminile siano intrinsecamente diversi. Un esempio è la tesi sostenuta dal neuroscienziato britannico Simon Baron-Cohen nel libro Questione di cervello. La differenza essenziale tra uomini e donne, uscito nel 2003. Secondo Baron-Cohen esistono due tipi di cervello: quello maschile, predisposto ad analizzare sistemi complessi, e quello femminile, più improntato all’empatia e alla decodificazione delle emozioni. Secondo questa teoria uomini e donne possono avere un cervello in parte maschile e in parte femminile, ma in media i primi tenderebbero ad averlo più maschile e le seconde più femminile.

Ci sono altrettante e più recenti teorie che sostengono posizioni molto diverse, che riconoscono all’ambiente in cui cresciamo, alla società che ci circonda e agli stereotipi con cui veniamo bombardati fin da bambini un ruolo neuro-costruttivo fondamentale per la determinazione del genere. È il caso degli studi di Cordelia Fine con il suo Testosterone Rex, pubblicato in Italia nel 2019, di Angela Saini con il suo Inferiori, o della neuroscienziata cognitiva Gina Rippon che del suo The Gendered Brain ha detto: «Il messaggio al centro di questo libro è che una società divisa per genere produce cervelli distinti per genere». Attenzione, non voglio dire che le differenze biologiche tra uomini e donne non esistano, ma che il modo in cui esse influiscono sulla predisposizione naturale a fare una cosa piuttosto che un’altra, sulle abitudini sessuali, sul modo di affrontare la vita e le relazioni è ancora tutto da dimostrare. Tale specifica forse è superflua, ma è uno dei meccanismi di difesa che ho sviluppato negli ultimi anni, da quando mi occupo più direttamente di donne e questioni di genere. Col tempo ho imparato a prevenire le obiezioni ai miei ragionamenti e so che quella delle evidenti differenze biologiche tra uomini e donne è una delle prime a essere mosse a qualsiasi donna si dichiari femminista.

Un’altra molto gettonata è confondere il femminismo con la misandria – il sei femminista quindi odi gli uomini, per intenderci – o l’idea che le femministe siano solo delle donne brutte, arrabbiate col mondo perché gli uomini non se le filano, o ancora che il femminismo sia uno strumento per depotenziare gli uomini e far sì che siano le donne a occupare le posizioni di potere, sottraendogliele.

Possono dirvelo in molti modi, cercando di far leva sul buon senso: vi diranno che chiedere un trattamento diverso per le donne non fa altro che mettere in risalto la loro differenza rispetto agli uomini; che le quote rosa non servono a niente, ciò che serve davvero è la meritocrazia, a prescindere dal genere; che il problema delle donne sono le donne stesse, troppo competitive, troppo arriviste, sempre pronte a parlare male l’una dell’altra e a farsi la guerra; o ancora vi diranno che ci stiamo ghettizzando a causa della nostra aggressività, che non siamo inclusive nelle nostre battaglie, che non prendiamo mai in considerazione gli uomini, che ci concentriamo solo sul costruire una nuova idea di femminilità ma non ci impegniamo abbastanza per ridefinire la mascolinità. Come scriveva Laurie Penny sul Guardian nel 2013: «Il vero motivo per cui molte persone trovano la parola femminismo spaventosa è che il femminismo è una cosa spaventosa per chiunque goda del privilegio di essere maschio.

Il femminismo chiede agli uomini di accettare un mondo in cui non ottengono ossequi speciali semplicemente perché sono nati maschi».

La vera sfida per le nuove generazioni allora è questa: trovare un modo di spiegare a tutti che il femminismo è un dialogo per ridefinire le forme del potere, un percorso da fare insieme verso l’uguaglianza, un processo che non implica rubare i diritti civili a qualcuno per darli agli altri, ma solo estenderli al maggior numero possibile di persone. Sarà dura, ma sarà bellissimo.

© 2020 HarperCollins Italia

(continua in libreria)

 

Libri consigliati