Esiste oggi una letteratura femminile? E se sì, da cosa si riconosce? Se lo chiede su ilLibraio.it la scrittrice Bianca Pitzorno, che chiama in causa autrici come Virginia Woolf, e che ricorda: “Fino a non moltissimi anni fa le donne non scrivevano ‘pubblicamente’, nel senso che scrivevano lettere e diari, ma non narrativa né saggistica e, soprattutto, non pubblicavano. Veniva ritenuta una cosa sconveniente…”

 

Dopo l’intervento iniziale dell’editore Luigi Spagnol, dal titolo “Maschilismo e letteratura, cosa ci perdiamo noi uomini?”, quello della scrittrice Michela Murgia sul tema “Cultura maschilista? Dai festival ai giornali, la sottorappresentazione delle donne”, quello di Renata Gorgani, direttore editoriale de Il Castoro, dedicato al tema “Nei ‘piani alti’ dell’editoria le donne restano una minoranza”, e dopo il contributo di Elena Varvello, dal titolo Esiste una “scrittura femminile”?, ospitiamo l’approfondimento della scrittrice Bianca Pitzorno.

Esiste oggi una letteratura femminile?

Esiste oggi una letteratura femminile? E se sì, da cosa si riconosce?

Se invece di seguire le indicazioni di Sainte-Beuve, che esigeva di conoscere la biografia degli autori fino ai minimi dettagli, fino al pettegolezzo,  per poter giudicare un  libro, seguiamo le indicazioni di Proust che,  polemizzando, sosteneva che ciò che conta è solo lo stile, potremmo riconoscere, unicamente dal testo, anonimo, se lo ha scritto un uomo o una donna?

 Fino a non moltissimi anni fa le donne non scrivevano “pubblicamente”, nel senso che scrivevano lettere e diari, ma non narrativa né saggistica e soprattutto non pubblicavano. Veniva ritenuta una cosa sconveniente. Quanto poi a farsi pagare per essere lette… Virginia Woolf attribuisce questo primato nel tempo ad Aphra Behn (1640 –1689). Io tornerei indietro fino a Christine de Pizan (1365 – 1430), la prima donna a guadagnare da vivere per sé e per i figli con la scrittura. Due soltanto, a ogni modo, contro le migliaia e migliaia  di firme maschili (impossibile non ricordare anche Saffo, ma non ci risulta che la pagassero per i suoi versi).

Fino all’Ottocento pubblicare un libro per una donna era così sconveniente che le tre sorelle Brontë si firmavano con pseudonimi maschili: Acton, Currer ed Ellis Bell (per Anne, Charlotte ed Emily).


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Pseudonimi maschili scelsero anche George Sand e l’altra George, Eliott.  Mi chiedo se un lettore o una lettrice che ignoravano la loro identità, leggendole avrebbe riconosciuto il travestimento. (Cosa che non poteva capitare con Jane Austen, che non firmava con il proprio nome ma neppure camuffava il proprio sesso. Senno e Sensibilità uscì anonimo, come scritto ‘By a Lady’, e i successivi romanzi come ‘By the Author of Sense and Sensibility’.

Oggi questa vergogna non esiste più. Le donne che scrivono sono moltissime e tutte si firmano.  Dal libraio che frequento d’estate  ad Alghero c’è un grande tavolo su cui sono ammucchiati libri firmati esclusivamente da donne, italiane e straniere. Libri che in genere, nonostante la buona qualità editoriale, copertina, rilegatura, carta, caratteri etc…,  costano meno di 10 euro. Destinati a essere letti sotto l’ombrellone, destinati più -esclusivamente?- a lettrici che a lettori. (il corrispettivo ‘da libreria’ di quello che tempo fa chiamavamo ‘rosa da edicola’, collane firmate anch’esse tutte da donne). Libri  dichiaratamente, anche se solo implicitamente,  presentati come poco impegnativi. (Che però vendono molto.)

I libri seri, di autori e di autrici, sono disposti su altri tavoli e negli scaffali.  Sui tavoli e negli scaffali della Libreria delle Donne di Milano che frequento d’inverno si trovano solo libri scritti da donne. Libri  tutti molto impegnativi, molto seri, come se non solo  la frivolezza ma anche la leggerezza (nel senso calviniano del termine) dovessero essere messe al bando.

  Mi sono chiesta spesso se nell’uno e nell’altro caso dietro a quelle firme si nasconda qualche uomo. Anni fa, nella mia breve esperienza editoriale, mi sono occupata anche di ‘rosa da edicola’ e so con certezza che certe Phyllis, Vanessa o Anthea erano in realtà italianissimi giovanotti o signori baffuti.

Esiste una “scrittura femminile”? – di Elena Varvello

Il ragionamento fin qua attiene al costume più che alla letteratura. Ma se esista davvero qualcosa di  specifico che distingua senza ombra di dubbio i testi scritti dalle donne da quelli scritti dagli uomini, è una domanda che si affaccia in continuazione, nei blog, nelle riviste, nei dibattiti, nelle conversazioni di lettori e lettrici. Davvero esiste una scrittura ‘al femminile’?  C’è chi ne è assolutamente sicuro. Ma non dice da cosa si riconosce, in cosa si distingue. Per i temi che tratta? Perché le sue protagoniste sono di sesso femminile, e così  le lettrici a cui ci si rivolge? Per l’attenzione a certi dettagli? Per l’empatia con le eroine, anche le più antipatiche?  Tutto questo non è esclusiva dei libri scritti da donne. Certo, riconosciamo a prima vista il sesso della ‘Lady’. I romanzi di Jane Austen potrebbe averli scritti solo una donna. Ma chi non sa che l’autrice è la giovanissima Mary Shelley (figlia oltretutto dell’autrice della Rivendicazione  dei diritti della donna), leggendo Frankenstein saprebbe  riconoscere con certezza il sesso di chi scrive? E leggendo Passaggio in India o Casa Howard di Foster?


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  Nei libri di Elsa Morante, in quelli di Anna Maria Ortese o di Natalia Ginzburg  la voce femminile è immediatamente riconoscibile, così come negli scritti di Virginia Woolf. Però secondo la stessa Virginia,  in particolare nel saggio Una stanza tutta per sé che tratta del tema  ‘donne e scrittura’, le differenze consistono essenzialmente nei difetti tipici dei due sessi. Le donne che scrivono sono state ridotte al silenzio per tanto tempo che adesso non riescono a liberarsi dal rancore e dalla rabbia. Gli uomini non riescono a liberarsi dall’ipertrofia dell’io. Perché la loro scrittura raggiunga i vertici dell’arte, autore e autrice devono  diventare “androgini”, riconoscere i primi la parte femminile, le seconde quella maschile del proprio essere, dimenticare la rabbia e l’egoismo, contemplare il mondo in pace, non cercare rivendicazioni ma l’espressione della verità. I geni, i veri artisti, come ha scritto Coleridge, devono avere una mente androgina.  ‘Dilettantescamente mi misi ad abbozzare uno schema dell’anima, secondo il quale in ognuno di noi presiedono due forze, una maschile ed una femminile, e nel cervello dell’uomo l’uomo predomina sulla donna e nel cervello della donna la donna predomina sull’uomo. Lo stato più normale e più comodo è quello in cui queste due forze vivono insieme in armonia, cooperando spiritualmente. Nell’uomo la parte femminile del cervello deve comunque avere un suo effetto; e anche la donna deve cercare di andare d’accordo con l’uomo che c’è in lei.(…) Ed è appunto quando ha luogo questa fusione che la mente diviene pienamente fertile e può fare uso di tutte le sue facoltà.

Secondo questo criterio la Woolf ci fornisce la sue graduatorie: -‘Kipling e Galsworthy non hanno una scintilla di donna in loro. Shakespeare era androgino; così come erano androgini Keats, Sterne, Cowper, Lamb e Coleridge, Shelley forse non aveva sesso. Milton e Ben Jonson avevano un pizzico di troppo di mascolinità. E anche Wordsworth e Tolstoj.  Ai nostri tempi, Proust era completamente androgino, forse un po’ troppo donna. Ma questo difetto è troppo poco comune perché ci si possa lagnare.’

   Eppure non possiamo negare che alcuni libri dettati dalla rabbia siano dei capolavori. Così come altri dettati dalla ‘ipertrofia dell’io’. Sul fatto però che l’uno o l’altro difetto siano propri dell’uno o dell’altro sesso, personalmente ho dei dubbi.

E qui getto la spugna. Una “scrittura femminile” si potrà forse riconoscere intuitivamente, ma io non conosco criteri rigidi di distinzione. Certo non lo sono le stupidaggini di certa scrittura bamboleggiante (e di certi blog) che definiscono il femminile attraverso descrizioni frivole e inutili dell’abbigliamento dell’eroina, o dei cibi che prepara  –non sempre tali descrizioni sono inutili, ma troppo spesso sì-  o rivendicano “antichi saperi” senza distinguere tra la storia e il folclore. Un tempo certo le “curatrici” contadine analfabete, quelle considerate  streghe, erano costrette dalla società a procurarsi delle conoscenze empiriche alternative e a passarsele attraverso la tradizione orale. Oggi, perlomeno nel nostro mondo occidentale, le donne possono avere una formazione scientifica come gli uomini ed essere medici invece che fattucchiere. Possono fare le astronaute invece di cavalcare le scope. Possiedono competenze. Sono la metà delle popolazione e hanno diritto al riconoscimento della stessa intelligenza e dello stesso valore. Possono e devono scrivere anche libri scientifici su qualsiasi disciplina o scienza esatta. Se qualche donna possiede un ‘intuito speciale’, lo possiede a mio avviso come individuo, non come categoria, così come può possederlo un uomo particolarmente sensibile.

E torniamo a Virginia Wolf. – Forse l’educazione non dovrebbe sottolineare e accentuare le differenze invece delle somiglianze. Perché di somiglianze ce ne sono abbastanza e se un esploratore dovesse tornare con la notizia di altri sessi che spiano fra i rami di altri alberi sotto altri cieli, sarebbe il più grande servizio che potesse fare all’umanità.

In conclusione, per quanto io ne sappia,  probabilmente una ’ letteratura femminile’  esiste. Ma può esserne autore un uomo come una donna purché ‘appollaiati sui rami di quegli altri alberi, sotto altri cieli’.

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