Lo scrittore americano Don DeLillo è considerato uno dei grandi maestri del postmoderno (romanzi come “Rumore bianco”, “Underworld” e “Running Dog” sono ormai dei classici): con i suoi libri racconta l’alienazione della nostra epoca consumistica – L’approfondimento

Se si dovesse tracciare una linea immaginaria del riserbo degli scrittori, che va dalla riservatezza nevrotica di Salinger ai tweet di Stephen King, Don DeLillo probabilmente si troverebbe circa a metà strada, dalle parti di Franzen ma con un’accentuata predilezione per la discrezione.

Nato nel novembre del 1936 da una famiglia di emigranti molisani, DeLillo si è avvicinato autonomamente ai grandi autori del sogno infranto statunitense, come Faulkner o Hemingway, durante le pause dallo studio e dai lavori estivi. D’altronde – il Ventesimo secolo ce lo insegna – non c’è niente di più americano di un figlio di immigrati che finisce per incarnare il sogno della terra promessa e diventarne cantore.

 Underworld di Don DeLillo

Don DeLillo: una storia americana

Don DeLillo cresce con molti altri fratelli in una casa caotica e rumorosa, in cui si mescolano tre generazioni e non esiste niente di lontanamente simile al concetto di privacy. Questo non gli impedisce di cominciare molto presto a scrivere racconti, per i quali si ispira alle atmosfere del quartiere in cui vive. È il Bronx, infatti, con le sue strade strette e fumose e la confusione che dalle case si riversa sui marciapiedi, a essere d’ispirazione per le prime prove di DeLillo. Da lì, Manhattan, dove successivamente si stabilirà, dista pochi incroci: ed è questa continua ricerca dell’americanità più pura che contraddistingue la sua intera storia letteraria.

Non è forse un caso, allora, che il romanzo d’esordio Americana (1971) seguirà il viaggio di un giovane professionista rampante, che, stufo dell’artificio di una vita che sembra incarnare il sogno americano, parte per le zone più rurali del Paese alla ricerca di situazioni più genuine, ma anche, inevitabilmente, più difficili.

Al termine dei corsi alla Fordham University, dove studia arte, DeLillo lavora per qualche anno da copywriter per Ogilvy & Mather (come un altro celebre scrittore, Salman Rushdie), ma capisce che quella dell’impiegato, per quanto in un contesto cosiddetto “creativo”, non è la quotidianità che può soddisfarlo.

Per fortuna Manhattan è ancora un posto dove un giovane senza troppe pretese può vivere dedicandosi alla scrittura: nell’arco di un paio d’anni, DeLillo si può rendere conto che si tratta del percorso giusto per lui. Un mestiere-non mestiere, in cui la pubblicazione di ciascun libro è preceduta da un lavoro certosino che può durare mesi o addirittura anni.

L'esordio Americana di DeLillo

Postmoderno e suggestioni fantascientifiche

Fin dalle prime opere, come il romanzo tra il thriller e il pulp Running Dog del 1978, Don DeLillo dimostra, oltre alla cura stilistica maniacale del testo, anche tutta la sua capacità affabulatoria, l’abilità di rapire i suoi lettori e farli sprofondare nella pagina scritta.

Amico di Jonathan Franzen e maestro di David Foster Wallace, DeLillo è considerato uno dei massimi esponenti del postmoderno americano, eppure non è un’etichetta che lo scrittore si è cucito addosso di proposito, quanto l’approdo di un’esigenza artistica più specifica: raccontare il mondo in frenetico divenire in cui si è trovato a vivere. Il consumismo, l’alienazione, la disgregazione dell’identità davanti all’automazione, la catastrofe imminente e la morte. Lontano dalle narrazioni intime e famigliari di altri scrittori americani a lui contemporanei, DeLillo porta la riflessione sui più profondi moti dell’animo a un livello ulteriore, trasportandoli dall’ambito privato a quello sociale, mostrando come l’incertezza storica e identitaria mantenga intatta la propria influenza anche al di là di una porta chiusa.

Einaudi, Rumore bianco

Sono romanzi come Rumore bianco (1985), in cui una piccola apocalisse chimica sprofonda un professore borghese nella paranoia e nel terrore della morte, o come il più celebre Underworld, volume del 1997 divenuto il massimo esempio del postmoderno americano, in cui si dipanano oltre quarant’anni di storia sociale degli Stati Uniti. O ancora Cosmopolis, racconto lungo del 2003 quasi interamente ambientato dentro una limousine: un lungo monologo sul disagio interiore e l’incapacità di radicarsi in un qui e ora che non esiste più. Non è un caso, infatti, che il libro sia stato portato al cinema da David Cronenberg, regista che ha saputo incarnare, a livello cinematografico, le medesime istanze di allucinata introspezione. E gli stessi romanzi di De Lillo sono, d’altronde, ricolmi di riferimenti al cinema e alle arti visive, finendo spesso per risultare a loro volta cinematografici fin dalla costruzione narrativa.

Cosmopolis, Cronenberg, DeLillo

Il suo ultimo romanzo, Zero K, è del 2016 e si configura come una grande riflessione sul termine della vita e sulla destinazione della coscienza umana. Ambientato in una clinica per la crioconservazione di ricchi eccentrici che sperano di venir risvegliati in un futuro in cui le peggiori malattie che ci affliggono avranno finalmente una cura, il romanzo è stato accusato di strizzare un po’ troppo l’occhio alla fantascienza. Tuttavia Zero K è stato anche annoverato tra le migliori opere di DeLillo da critici illustri come Michiko Kakutani, temibilissima giornalista culturale del New York Times.

Don DeLillo, con le sue giacche color cachi e i cappellini da baseball che ogni americano che si rispetti tiene nell’armadio – a prescindere dalle sue origini italiane, ebraiche o indiane –, sembra imperturbabile al trambusto che si scatena a ogni sua nuova pubblicazione. Parco di sorrisi e di partecipazioni a festival e kermesse, incarna quell’autorevole figura di scrittore avulso alla tecnologia e alla moderna frenesia. Eppure sono proprio queste le tematiche più disturbanti dei suoi romanzi: vero è che ciò che si teme è anche quello che si evita con più forza.

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