Come lo ha raccontato Gregor von Rezzori nel romanzo Memorie di un antisemita ISBN:888246105X

Quando uscirono per la prima volta in Italia le Memorie di un antisemita di Gregor von Rezzori (1980), a Milano si celebrava il bicentenario della morte di Maria Teresa d’Austria, l’imperatrice che, innamorata della città d’adozione, l’aveva trasformata con le sue riforme, la sua cultura e la sua dorata “Madunina”. A un giornalista che gli aveva chiesto quale effetto gli facessero queste celebrazioni, Grisha (come lo chiamavano gli amici) rispose che lo divertivano non poco…

Tra chi lo aveva intervistato allora, infatti, molti erano partiti da una sola certezza in merito alla decifrabilità di questo misterioso scrittore, rumeno di lingua e austriaco di cultura (ma curiosamente di origini proprio milanesi): che la sua vita e la sua opera splendessero grazie al carattere decisivo del suo patrimonio culturale, la sua asburgicità.

Leggendo oggi la nuova edizione delle Memorie di un antisemita, che apre la pubblicazione dell’opera omnia di von Rezzori presso Guanda, l’elemento asburgico appare invece soltanto uno sfondo, per quanto importantissimo, sul quale si muovono gli innumerevoli personaggi delle sue storie, perché von Rezzori, in realtà, dell’impero ha visto poco, essendovi nato alla soglia del crollo. L’Austria della sua gioventù è soltanto un paese fantasma, un mito doloroso appunto, su cui gli anziani appartenenti, come il padre, la madre e l’ambiguo Stiassny, rimuginano la passata grandezza cercando di esorcizzarne ancora la fine.

L’unico modo di imparare che cos’era l’Austria sono i monologhi paterni sull’onore e la fedeltà alla corona: un luogo fisso, perenne, in cui il crogiolo delle forze in campo stagnava nella gloriosa gerarchia cavalleresca, costituita al fondo dai servi della gleba (tra cui gli ebrei) e in cima dalla cerchia dell’imperatore; il centro della piramide, invece, era appannaggio dei vassalli come suo padre, ora (dopo la Grande guerra) costretto ad affogare in estenuanti battute di caccia il dolore per la disgregazione dell’impero e il forzoso esilio nei boschi malinconici della Bucovina, nei Carpazi.

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Il libro si sviluppa in cinque episodi di evidente sapore autobiografico, nei quali il protagonista – un giovane aristocratico alle prese con la sua iniziazione alla vita — scopre il mondo che lo circonda attraverso gli occhi di amici e amori tutti appartenenti alla cultura ebraica askhenazita, ovvero dell’Oriente europeo. Nel primo, il protagonista tredicenne scopre (finendo per identificarvisi totalmente) la particolarità della sua situazione, ben espressa dalla parola russa Skutschno (vuoto dell’anima), grazie all’amicizia con un ragazzino ebreo, geniale pianista, che finisce però per rubargli l’affetto della zia; nel secondo, ormai ventenne, il protagonista si immerge nella tumultuosa vita di Bucarest vivendo un amore contrastato per una misteriosa e solitaria ebrea che lui chiama la Vedova Nera, una figura che mette a nudo la sua solitudine interiore; nel terzo, invece, sarà un’altra donna ebrea che lo inizierà alla letteratura e al culto sofferto dei ricordi; nel quarto (forse il più bello), il giovane ventenne sbarca nella Vienna degli anni Trenta, città decadente ma ancora fantastica, scoperta grazie alla protezione amorosa dell’immancabile ebrea di turno, Minka, dolce tigresse dai molti amanti e dal bel sorriso caldo che lo prende sotto la sua ala protettrice e lo aiuta a inserirsi nella realtà viennese; il quinto, infine, il più amaro, è una presa di coscienza della difficile condizione di esule senza più ritorno.

In sostanza, tutta la tortuosa parabola del giovane eroe delle Memorie di un antisemita è una feroce lotta intestina per liberarsi dalla campana di vetro che lo voleva suddito fedele della sua immagine di cavaliere del Nulla (il se stesso voluto dal padre, dalla sua classe, dall’Austria Felix scomparsa), vero Don Chisciotte mitteleuropeo, e maturare la sofferta adesione alla caotica realtà rumena-viennese: luoghi ormai di frontiera, di confine tra Oriente e Occidente, brulicanti di vita, colori, etnie diverse, tra cui, naturalmente gli ebrei.

È da tali premesse che nasce questo strano antisemitismo che non ha nulla di teorico ma che risulta un autentico prodotto dell’incontro-scontro tra esistenze diverse: in quest’ottica il libro è sicuramente una cruda confessione della profonda difficoltà a tollerare culturalmente e psichicamente l’irruzione della diversità nella propria esistenza. L’ebreo, per lui, è il più diverso fra tutti, e di conseguenza, il vero oggetto di desiderio, l’amato-odiato per antonomasia, l’ossessione.

Le memorie dell’ormai scomparsa Kakania di von Rezzori sono una tragica deriva, ma anche una sinfonia della bellezza di quel mondo catastrofizzato, dei suoi mille sapori e colori, tutti apparentati ad altrettante emozioni e a pochi, fragili, decisivi sentimenti; e infine fertile terreno di scritture, germinate grazie al potente strumento della memoria e dell’invenzione artistica (una felice maturazione dell’occhio acuto del solitario giovinetto di un tempo): è proprio su questo terreno che l’autore, accusato da molti (tra cui la sua seconda moglie ebrea) di essere un “ladro di ricordi” e un bugiardo, alla fine del libro rompe brutalmente gli indugi per affermare la sua piccola verità di esule, la sua testimonianza ultima, sgusciando dalla morsa della Verità obiettiva, unica. La sua, scrive, “non era viltà, non una fuga — anzi al contrario: di guardare in faccia la realtà era capace anche lui; e perfino meglio della maggior parte degli altri, perché lui sapeva quanto fosse pericolosa. Ma l’arte di porle davanti ogni volta un nuovo possibile se stesso, una nuova invenzione di sé, e la destrezza e la danzante agilità nello schivarla di nuovo, nel sottrarle quella invenzione di sé nell’attimo estremo prima di scontrarsi con lei — in quell’arte non aveva davvero rivali”.

[Recensione di Michele Weiss]

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