Michele Orti Manara torna in libreria con la raccolta di racconti “Il vizio di smettere”, che introduce così…

Michele Orti Manara, veronese classe 1979, anima del blog nepente, dopo esser stato ghostwriter ora si occupa dei social media in ambito editoriale. I suoi racconti sono apparsi su Cadillac, inutile, l’Inquieto, mentre il suo esordio, Topeca, è stato pubblicato da Antonio Tombolini Editore.

Orti Manara torna adesso in libreria per Racconti edizioni con Il vizio di smettere (illustrazioni di Francesca Protopapa), libro “mediato da uno sguardo infantile che si va disingannando un po’ controvoglia, senza mai diventare cinico”. Racconti che, nella presentazione, vengono definiti manganelliani “mattoni della materia”. Abbiamo chiesto all’autore di introdurli.

Michele Orti Manara

di Michele Orti Manara

Una raccolta di racconti è un oggetto strano, sfuggente.

È un po’ come una pallina di mercurio: quando la prendi in mano per esaminarla nell’insieme si disfa in palline più piccole che scivolano di qua e di là. E appena ne raccogli una ce n’è subito un’altra che rotola via.

Insomma, non è semplice presentarla, non è semplice descriverla in maniera esauriente, abbracciando tutti i racconti in una volta sola.

Non è semplice neanche darle un titolo, a ben vedere, a meno che non si scelga di usare quello di un singolo racconto per battezzare l’intera raccolta.

Prendiamola alla larga, allora, partiamo da quello che tutti questi racconti hanno in comune, per quanto banale possa essere: sono stati scritti dalla stessa persona, e una delle prime cose che si fa di solito quando la si incontra è chiederle da dove prenda le idee.

Per quel che mi riguarda, la provenienza delle idee è come la destinazione delle anatre di Holden: una di quelle questioni su cui è affascinante farsi domande, ma senza illudersi che possa esistere una risposta soddisfacente.

Di ogni racconto in Il vizio di smettere ricordo alla perfezione dove l’ho scritto, come stavo mentre lo facevo, cosa intendevo dire, cosa non riuscivo a dire, le parole con cui ho fatto a testate e quelle che apparendo hanno dissolto i dubbi, eppure di nessun racconto ricordo la prima scintilla (tranne di uno, forse non a caso il più surreale di tutti).

Insomma, di fronte alle domande che cercano di sviscerare il processo creativo, la classica terza opzione da sondaggio (non sa/non risponde) più che una scappatoia mi sembra essere l’unica risposta davvero sincera.

Così però ci siamo infilati in un vicolo cieco, e al posto della già sfuggente pallina di mercurio rischiamo di trovarci a mani vuote.

Respiriamo, ricominciamo.

“Il nocciolo della questione,” si chiede un personaggio nei Detective selvaggi di Bolaño “è sapere se il male è casuale o causale. Se è causale possiamo lottare contro di lui, è difficile da sconfiggere ma c’è una possibilità. […] Se è casuale, al contrario, siamo fregati”.

Non credo che “il male” sia la migliore definizione per quello che succede ai personaggi di questi racconti, troppo assoluta e priva di sfumature. Ripiegherei quindi sulla più modesta ma ugualmente insidiosa categoria delle brutte sorprese – e adesso che ci penso Brutte sorprese sarebbe stato un buon titolo per il libro; poco seducente, forse, ma azzeccato.

Alcune di queste sorprese sono imprevedibili, dispettose e inspiegabili come poltergeist. Altre sono frutto di scelte sbagliate, comportamenti discutibili, errori di valutazione.

La cattiva notizia è che anche le seconde, cioè quelle sulla carta più semplici da evitare, sembrano contenere qualche scheggia di inevitabilità.

La buona notizia è invece che in questi racconti anche le brutte sorprese casuali non ti fregano quasi mai in maniera irreparabile. A volte perché le cose si aggiustano, altre semplicemente perché il racconto finisce; e una cosa che mi ha sempre affascinato della letteratura è che dopo l’ultimo punto fermo, tutto sommato, ogni cosa è ancora possibile.

Ecco quindi un altro caso in cui il non sa/non risponde si rivela utile: se mi chiedete cosa succede dopo che un racconto è finito, be’, proprio non saprei.

Credo però di sapere cosa viene prima che un racconto cominci, cosa lo mette in moto.

Da bambino trovavo molto interessante guardare le persone mentre mangiavano. Come portavano il cibo alla bocca, come masticavano, se aspettavano di avere deglutito prima di dire qualcosa, ogni quanto bevevano, e così via.

A un certo punto, non ricordo quando, la cosa ha smesso di sembrarmi affascinante; o meglio, quel tipo di interesse si è spostato ai rapporti tra le persone. Mi sono trovato a osservarli sempre più spesso, a constatare come spesso sembrino alieni visti dall’esterno, a misurare la quantità di crepe che riescono a tollerare prima del crollo. A volte sono edifici talmente diroccati che i vuoti sembrano più dei pieni, eppure, miracolosamente, stanno su.

Il vizio di smettere contiene storie che sono state scritte nell’arco di circa cinque anni. I personaggi hanno età molto diverse, da zero a ottant’anni o giù di lì – due sono anche di una specie diversa, felina –, ogni racconto è a sé stante e non è neanche detto che appartengono tutti allo stesso universo narrativo.

Però mi sembra che in ognuno, in un modo o nell’altro, ci sia qualcuno che deve fare i conti con tutto questo: brutte sorprese, crepe, un autore che nascosto dietro a una tastiera dovrebbe avere molte risposte, e invece, non sa.

 

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