La memoria come depositaria dell’identità. Il saggio di Julia Shaw, docente di criminologia e psicologia, è dedicato sull’affidabilità dei ricordi. Su ilLibraio.it il capitolo dedicato a multitasking, social media e amnesie digitali

È la memoria a delineare l’identità umana: ogni persona è fatta di ricordi, di un passato che va a determinarne i gusti, le attitudini e la personalità, al punto che senza ricordi quella persona non sarebbe più la stessa. Questo è il tema fondamentale espresso nel saggio di Julia Shaw, L’illusione della memoria, Ponte alle Grazie, in cui la docente di criminologia e psicologia di origini tedesche affronta tutte le problematiche collegate all’affidabilità della memoria (e, come vedremo, parla anche di una questione dibattuta: il cosiddetto multitasking).

julia shaw memoria identità

Con rigore scientifico, ma senza rinunciare a una punta di ironia, Julia Shaw passa in rassegna diversi studi pubblicati negli ultimi anni e affronta le diverse tematiche legate al ricordare, al dimenticare e alla memoria selettiva, fino alla possibilità di impiantare inconsapevolmente dei ricordi falsi.

L’autrice, anche sulla base della sua esperienza lavorativa, spiega che la memoria non è un insieme immutabili di immagini del passato, ma può modificarsi col tempo e venire interpretata diversamente alla luce delle nuove esperienze fatte; allo stesso modo, inconsciamente, si può accedervi per modificare, o impiantare, un ricordo. 

Ma se la memoria è veramente la depositaria dell’identità “manometterla” comporta il rischio di cambiare la personalità dell’individuo, alterarne il carattere, anche solo in modo impercettibile. L’illusione della memoria vuole essere la risposta a questo problema: una guida per imparare a ricordare consapevolmente, per vivere meglio e nel presente.

julia shaw memoria identità

Su ilLibraio.it, per gentile concessione dell’editore, pubblichiamo un capitolo del  libro:

8. I SOCIAL MEDIA

Media multitasking, conformità e amnesia digitale

Perché i media plasmano la nostra memoria

Se un albero cade nella foresta, ma non c’è nessuno a sentirlo, fa rumore? Se date una festa, ma nessuno la commenta su Facebook, c’è stata davvero? Se avete un’opinione, ma non la scrivete su Twitter, è veramente importante? Sono profondi interrogativi filosofici come questi a tormentare la generazione Y, mentre i media – in particolare i social media – svolgono un ruolo senza precedenti nella vita delle persone.

Le nostre opinioni sugli eventi d’attualità sono state, e continuano a essere, profondamente influenzate da Internet. Non ci sono solo immagini porno e di gatti là fuori – Facebook, Twitter, YouTube, Instagram, Reddit, Upworthy, BuzzFeed… siamo impegnati in un continuo scambio d’informazioni che senza dubbio influenza la nostra percezione del mondo e plasma il modo in cui condividiamo l’esperienza che ne abbiamo.

I social media aumentano la possibilità di trovare prove indipendenti che convalidino i nostri ricordi, ma hanno anche le potenzialità per contaminarli e distorcerli. Riflettiamo sulle cose che sono appena accadute; documentiamo cose che pensiamo otterranno il massimo dei ‘mi piace’; filtriamo la nostra vita così che appaia allettante e interessante. Ma in mezzo alla gioia e al senso di connessione che tutta quest’attività ci regala, ogni tanto fermiamoci a chiederci se questa cacofonia di sensazioni sia davvero un bene per noi. Quali sono le implicazioni dei media per i nostri ricordi?

Media multitasking

Lasciate che vi sveli un segreto. Non potete fare più cose contemporaneamente.

Anche se questa non è certo una sorpresa per alcuni di voi, molti probabilmente pensano di avere grandi capacità di multitasking. E chi sono io per negarlo? Probabilmente riuscite a camminare, parlare, pensare e bere, tutto nello stesso momento.

Il termine multitasking, però, in genere designa qualcosa di più complesso, ossia significa eseguire compiti rilevanti che richiedono attenzione, memoria e pensiero. A partire dall’avvento degli smartphone, questa parola sembra aver assunto un significato del tutto nuovo. Pensiamo di poter fare due chiacchiere davanti a un caffè mentre controlliamo costantemente il cellulare, o di poter inviare una raffica di sms durante una lezione riuscendo tuttavia a ricordare la spiegazione del docente, o di essere in grado di pubblicare foto online e al tempo stesso goderci il momento.

Gli esseri umani credono di potersi dedicare con abilità a più compiti contemporaneamente: un’idea che nasce da una valutazione inadeguata dei meccanismi della memoria e dell’attenzione. Come spiega il neuroscienziato Earl Miller del MIT, «non è possibile svolgere molto bene più attività nello stesso momento, e quando qualcuno afferma di poterlo fare, si sta solo illudendo […] Il cervello è molto bravo a ingannarsi».

Miller suggerisce che la parola migliore da usare per quel tipo di situazioni in cui ci piace pensare che sia coinvolto il multitasking è task-switching, ossia cambio di compito volontario: «Quando la gente crede di svolgere più attività insieme, in realtà sta solo passando da un compito all’altro molto rapidamente. E ogni volta che questo accade, c’è un costo cognitivo». Così, quando ci sembra di fare le cose più velocemente, in realtà stiamo solo sovraccaricando il cervello.

Nel 2014 Derek Crews e Molly Russ della Texas Women’s University hanno condotto una revisione della letteratura accademica sull’impatto prodotto dal task-switching sull’efficienza, e hanno concluso che il cambio del compito va a discapito della produttività, del pensiero critico e della capacità di concentrazione, oltre a renderci più suscettibili agli errori. Questo non solo determina una minor capacità di svolgere il compito che stiamo affrontando, ma sembra anche avere un impatto sulla successiva capacità di ricordare le cose. Il task-switching aumenta lo stress, rende più difficile trovare un equilibrio tra vita professionale e privata e può comportare conseguenze sociali negative.

Nel 2012, il ricercatore accademico Reynol Junco della Lock Haven University e la sociologa Shelia Cotton dell’Università dell’Alabama hanno esaminato l’impatto del task-switching sulla capacità di imparare e ricordare le cose, pubblicando i risultati in un articolo intitolato No A 4 U, ‘Niente voti alti per te’. L’indagine è stata condotta su un campione di 1834 studenti universitari, intervistati sul loro uso dei social media e, come prevedibile, è risultato che quasi tutti dedicavano ogni giorno una notevole quantità di tempo all’impiego delle tecnologie d’informazione e comunicazione. Più precisamente, «il 51 per cento degli intervistati ha riferito di inviare messaggi istantanei, il 33 per cento di utilizzare Facebook e il 21 per cento di scrivere e-mail durante il tempo trascorso a studiare, con una frequenza che varia da qualche volta a molto spesso». È stato calcolato anche il tempo dedicato ad attività diverse durante lo studio: gli studenti del campione esaminato hanno riferito che fuori dalla classe dedicavano in media sessanta minuti al giorno a Facebook, quarantatré a navigare in Internet e ventidue alla posta elettronica. Questo significa che trascorrevano oltre due ore al giorno eseguendo attività diverse mentre stavano sui libri.

Purtroppo per gli studenti, i ricercatori hanno anche riscontrato che questo tentativo di multitasking, in particolare l’uso di Facebook e della messaggistica istantanea, aveva una significativa correlazione negativa con il rendimento scolastico; maggiore era il tempo che gli studenti dedicavano all’uso di queste tecnologie, peggiori erano i voti. Junco e Cotton hanno concluso che probabilmente questo è dovuto a un sovraccarico di lavoro nel cervello, che impedisce agli studenti di impegnarsi in un apprendimento più approfondito e a lungo termine.

Ma perché avviene questo sovraccarico? Come abbiamo visto nel primo capitolo, la nostra capacità di memoria di lavoro è incredibilmente limitata, ossia è in grado di memorizzare quattro o cinque informazioni alla volta. Nel 2015 il neuroscienziato Earl Miller con i colleghi del MIT e Tim Buschman dell’Università di Princeton hanno scritto un articolo che spiega le ragioni dei limiti della nostra larghezza di banda cognitiva. Quando un neurone si attiva, cioè ‘spara’, emette una scarica elettrica che produce un rumore: le onde cerebrali sono sostanzialmente generate da impulsi elettrici sincronizzati di masse neurali. I neuroni possono produrre scariche elettriche con frequenze diverse, che variano da meno di un hertz a oltre sessanta hertz. Gli stati mentali più rilassati generalmente corrispondono a frequenze più basse, mentre maggiore è lo sforzo richiesto da un compito, più alta diventa la frequenza. Le onde cerebrali sono visibili in alcune ricerche di neuroimaging, come quelle che utilizzano l’elettroencefalografia (EEG) o la magnetoencefalografia (MEG). Nel loro studio, Miller e Buschman sostengono che queste onde cerebrali (o, come le chiamano loro, «ritmi cerebrali oscillatori») sono la chiave per la comunicazione tra i neuroni nel nostro cervello e l’esperienza essenziale del pensiero. Secondo i due neuroscienziati, il cervello umano «regola il flusso del traffico neurale attraverso una sincronia ritmica tra neuroni»: in altre parole, quando abbiamo un pensiero è perché un complesso (ensemble) di neuroni si stanno attivando sulla stessa lunghezza d’onda.

È come un coro, in cui ogni membro rappresenta un singolo neurone. Le canzoni che il coro canta sono i pensieri del nostro cervello. Se ogni persona canta una canzone diversa senza tener conto degli altri, il risultato è una cacofonia di suoni. Solo quando tutti cantano in sincronia, producono una canzone armoniosa. Inoltre ognuno può anche intervenire in più brani, ma occorre cantare in modo diverso per creare canzoni differenti. Infine, i membri del coro non devono per forza cantare sempre: possono far sentire la propria voce in alcune canzoni e non in altre.

Miller e Buschman sostengono che «siccome l’appartenenza a un insieme dipende da quali neuroni stanno oscillando in sincronia in un dato momento, gli insiemi potrebbero formarsi, spezzarsi e riformarsi senza modificare la struttura fisica della rete neurale sottostante. In altre parole, questo fenomeno può assicurare ai complessi di neuroni una caratteristica fondamentale: la flessibilità nella loro costruzione». Il cervello umano è in grado di passare agevolmente da un pensiero complesso a un altro, perché i neuroni possono lavorare all’unisono operando su una certa frequenza del segnale elettrico: questo crea sincronismo a prescindere dalla loro connessione fisica. Come dicono gli autori, i neuroni ronzano insieme.

Ma questa capacità che rende possibile il pensiero attraverso la comunicazione immediata e temporanea tra neuroni sembra essere al tempo stesso ciò che rende impossibile il vero multitasking. Il nostro cervello può cablare e ricablare le reti neurali quasi istantaneamente, ma questa flessibilità mentale implica il riuscire a fare una sola cosa alla volta. Dopotutto, gli stessi neuroni non possono formare più complessi nello stesso momento, perché ciò significherebbe dover inviare simultaneamente scariche elettriche di lunghezza d’onda diversa. I membri del coro devono cantare tutti la stessa canzone.

Adesso provate a guardarvi attorno e trovate oggetti che siano in verticale e blu. Mentre eseguite questo compito, è probabile che prima cerchiate le cose che stanno dritte: solo quando ne avrete trovata una, verificherete se è anche blu. Nel passaggio da un compito all’altro ci sarà una piccolissima pausa. In un esperimento pubblicato nel 2012, Buschman, Miller e i loro colleghi hanno assegnato questo compito a un gruppo di scimmie, addestrandole a spostare l’attenzione dal colore di una linea al suo orientamento nello spazio. Agli animali erano stati attaccati degli elettrodi per monitorarne l’attività cerebrale.

Quando le scimmie focalizzavano l’attenzione, cercando di decidere se una linea fosse rossa o blu, orizzontale o verticale, incrementavano la produzione di un particolare tipo di onde cerebrali, le onde beta, che hanno una frequenza compresa tra i diciannove e i quaranta hertz. In base al compito in cui le scimmie erano impegnate in un dato momento – identificare il colore della linea o il suo orientamento – si attivavano modelli neurali diversi. Alcuni neuroni erano coinvolti in entrambi i task, ma i modelli generali o le reti di neuroni che ronzavano insieme erano distinti in base all’attività.

A volte i ricercatori hanno osservato anche oscillazioni nella gamma bassa della frequenza (tra i sei e i sedici hertz) che corrispondono alle onde alfa. La cosa affascinante di queste onde alfa era che sembravano apparire solo quando le scimmie passavano dal task d’identificazione dell’orientamento a quello di identificazione del colore. In altre parole, le onde alfa erano le onde cerebrali che emergevano in concomitanza con il cambio di compito: sono quelle che ci aiutano a smettere di pensare alle cose irrilevanti.

Nelle scimmie le onde alfa contribuivano a smorzare l’attività della rete neurale che stava valutando se una linea fosse verticale oppure orizzontale, così che nel cervello potesse fervere l’attività dei neuroni preposti all’identificazione del colore. I risultati di questo esperimento hanno convalidato l’ipotesi dei ricercatori: i due compiti in conflitto non potevano essere completati contemporaneamente, ma era necessario passare da uno all’altro. Ne deriva che non possiamo sperare di creare ricordi per più di un pensiero alla volta.

Eseguire due compiti che richiedono l’utilizzo della stessa area cerebrale, come nel task di ricerca visiva su colore/orientamento, in genere risulta molto più difficile rispetto a due azioni che non sono direttamente in conflitto, come camminare e parlare. Cercare nello stesso momento oggetti verticali e blu (anziché eseguire i due task a distanza di una frazione di secondo, come abbiamo appena descritto) richiederebbe agli stessi neuroni visivi di svolgere due compiti diversi in contemporanea. Se nella testa aveste delle persone, anziché dei neuroni, questo sarebbe l’equivalente di assegnare a Chris due incarichi da svolgere nello stesso istante, con lui che grida: «Alt! Devo stabilire un ordine di priorità!»

In alternativa, possiamo incaricare due aree diverse del cervello di lavorare contemporaneamente. In quel caso, sarebbe come affidare un lavoro a Chris e un altro ad Adam. Magari accadrà ancora che si rallentino a vicenda, perché di tanto in tanto dovranno comunicare tra loro, ma in genere riusciranno a eseguire entrambi i compiti abbastanza bene. Questo in sostanza è ciò che accade quando avvengono in simultanea processi consci e inconsci; il consapevole Chris è bravo a pensare e prendere decisioni, mentre l’istintivo Adam è bravo a guidare, camminare e svolgere altre attività che vengono compiute per lo più in modo automatico.

Tuttavia anche questo scenario non è perfetto. Le ricerche sui pericoli del task-switching dimostrano che tentare di dividere la nostra attenzione può causare problemi anche quando i compiti non sembrano correlati. Nel 2006 David Strayer e il suo gruppo di ricerca all’Università dello Utah6 hanno pubblicato uno studio che metteva a confronto automobilisti ubriachi e automobilisti che stavano parlando al cellulare. In una situazione simile possiamo supporre che la maggior parte dell’attenzione consapevole sia rivolta alla conversazione, mentre la guida è relegata al monitoraggio automatico. Di fatto, i ricercatori hanno scoperto che «quando i conducenti parlavano al cellulare, con o senza auricolare, i tempi di reazione erano più lenti ed erano coinvolti in un maggior numero d’incidenti stradali rispetto a quando non erano distratti dalla conversazione telefonica». Inoltre hanno aggiunto che parlare al telefono quando si è al volante può essere altrettanto pericoloso della guida in stato d’ebbrezza, perché in entrambi i casi il rischio di incidenti aumenta notevolmente.
La ragione più probabile è che le due attività, guidare e parlare, non siano totalmente estranee l’una all’altra come si potrebbe pensare. Questo succede perché il consapevole Chris è il capo dell’automatico Adam. Se Adam s’imbatte in una situazione che non sa risolvere facilmente, come dover prendere una decisione, ha bisogno di chiedere a Chris. È una seccatura, perché significa che Adam continua a interferire con il compito a cui Chris sta cercando di sovraintendere: Bisogna svoltare qui? «Sì, sarò lì per le 8.30». Riuscirò a passare prima che scatti il rosso? «Credo che stasera dovresti indossare il vestito verde». È complicato. Insomma, i processi automatici spesso non sono poi così automatici come potremmo supporre.

Da anni gli scienziati sostengono che i pericoli legati all’uso del cellulare mentre si è alla guida hanno maggiormente a che fare con l’incapacità di compiere più azioni nello stesso momento, che non con l’impossibilità di utilizzare la mano che lo stringe. Le leggi vigenti in molti paesi che consentono l’uso del cellulare con l’auricolare o in vivavoce sembrano ignorare queste informazioni, o quanto meno non comprenderne il significato.

Nel caso che io non abbia ancora distrutto del tutto la vostra convinzione di essere abili multitasker, desidero concludere con un ultimo studio che forse cambierà il vostro attaccamento al cellulare. Nel 2015, Aimee Miller-Ott, ricercatrice in scienze della comunicazione all’Università statale dell’Illinois, e Lynne Kelly dell’Università di Hartford hanno osservato che l’uso costante del cellulare mentre si è impegnati in altre attività può essere d’ostacolo alla felicità. Secondo le due studiose, abbiamo tutti delle aspettative su come dovrebbero essere alcune interazioni sociali, e se queste aspettative vengono disattese, sviluppiamo una risposta negativa.
In uno studio qualitativo hanno chiesto a cinquantun partecipanti di spiegare che cosa si aspettassero quando uscivano con amici o persone care, o quando avevano un appuntamento romantico. Così hanno scoperto che la semplice presenza di un telefono cellulare in vista diminuiva il piacere per il tempo trascorso insieme, per non dire quando l’altra persona lo usava di continuo. Una delle ragioni per cui gli intervistati non gradivano che l’altro stesse al telefono era che in quel modo veniva tradita l’aspettativa di totale attenzione durante gli appuntamenti e altri momenti intimi. Nelle uscite con gli amici, quell’aspettativa era inferiore, per cui la presenza di un telefono cellulare non era percepita come altrettanto negativa, anche se spesso si riteneva che riducesse l’interazione personale diretta. Quei risultati collimavano con ciò che le ricercatrici avevano riscontrato nella loro revisione della letteratura accademica, che fornisce prove evidenti del fatto che le persone sono spesso infastidite e stizzite se il partner utilizza un telefono cellulare quando è con loro.

Ciò trova conferma anche nel lavoro pubblicato nel 2016 dal professore di marketing James Roberts insieme a Meredith David della Baylor University. Roberts ha coniato il termine phub (incrocio delle due parole inglesi phone, cioè telefono, e snub, che significa snobbare), per descrivere l’atteggiamento di chi è in compagnia di qualcuno, ma lo ignora a favore del proprio smartphone. Secondo Roberts, l’attaccamento al cellulare che porta a questo tipo di comportamento maleducato è associato a maggior stress, ansia e depressione.

Quindi, se si desidera che le interazioni nella vostra vita siano più produttive, sicure e significative, concentratevi sul cellulare o siate presenti nel mondo offline, dando una netta preferenza a quest’ultimo.

(Continua in libreria…)

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