Arriva in libreria “Giardini in tempo di guerra”, un’escursione letteraria e bucolica alla ricerca di un rifugio – il giardino – in cui il mondo diventi finalmente abitabile… – Su ilLibraio.it il capitolo dedicato al regista, morto nel ’94, e autore di “The garden”

Nel 1992, quando scoppia la guerra in Bosnia, Teodor Cerić, studente di Lettere e poeta, lascia Sarajevo: per sette anni, cerca rifugio sulle strade d’Europa, lavorando dove capita e visitando giardini, spesso sconosciuti, marginali, nati dai sogni e dai desideri più intimi dei loro creatori. Durante questa lunga erranza, elaborerà un pensiero sul giardino fondato su una concezione romantica della natura, pensiero che sorge dalla visita di questi luoghi di cui Cerić coglie la dimensione poetica e esistenziale, e soprattutto la capacità di sfuggire al disastro della Storia, alla perversione della civiltà. Ora arriva in libreria per Ponte alle Grazie Giardini in tempo di guerra, di Cerić (volume a cura) di Marco Martella, un’escursione letteraria e bucolica, sognante e metaforica, alla ricerca di un rifugio – il giardino – in cui il mondo diventi finalmente abitabile

Ponte

PER SAPERNE DI PIU’ SUL LIBRO

Su ilLibraio.it il capitolo “Eden e Getsemani”, dedicato al giardino-cimitero del regista Derek Jarman
(pubblicato per gentile concessione dell’editore)

Tutto ha avuto inizio una ventina d’anni fa, nel 1994, quando già da un po’ di tempo viaggiavo attraverso il continente europeo.
A quel tempo risiedevo a Londra, lavorando come magazziniere al porto fluviale. Una sera, avevo visto, in un cinema d’essai, uno strano film intitolato The Garden, uscito tre o quattro anni prima. Del suo autore, Derek Jarman, sapevo soltanto che era appena morto di Aids. Questa malattia, allora ancora coperta da un silenzio d’imbarazzo, era l’argomento del lungometraggio che un critico cinematografico aveva definito «film testamento». Il giardino di cui si parlava era una sorta di mondo idilliaco, un Eden ideale, un’età dell’oro erotica e sentimentale cui i due ragazzi protagonisti del film erano stati strappati dalla malattia. Le immagini di un giardino reale – un quadrato colmo di piante nel bel mezzo di una landa deserta, filmato soprattutto durante la notte – comparivano ogni tanto, terrificanti, quasi allucinate, elettriche.
«Credo che sia il giardino di Jarman», mi aveva bisbigliato all’orecchio la ragazza con cui ero.
L’indomani, andai alla biblioteca del quartiere in cui vivevo per spulciare le riviste di cinema e lessi alcuni articoli che trattavano degli ultimi anni di vita di Jarman. Seppi che il suo giardino, Prospect Cottage, si trovava nel Kent, a un centinaio di chilometri da Londra, in un luogo chiamato Dungeness. Guardando le fotografie del posto, mi venne voglia di vederlo con i miei occhi. Era come se sentissi che lì c’era qualcosa che mi chiamava e che da quel giardino sarebbe venuta una risposta, una risposta a domande che, a dire il vero, ancora non riuscivo a formulare in modo chiaro.
Così, una mattina di primavera, mi decisi. Mi recai a Victoria Station e presi un treno per il Kent. Cos’avrei trovato, là? E qual era lo stato del giardino, adesso che il suo giardiniere era scomparso? Era diventato un semplice luogo della memoria? Un monumento funebre?
Ah, no, Prospect Cottage era tutto meno che questo.
Il giardino traboccava di vita, e la morte era onnipresente.
Avevo preso a nolo una bicicletta nella città più vicina a Dungeness. In capo a un’ora o due, mentre pedalavo su una strada deserta, dopo aver superato un’enorme centrale nucleare che s’innalzava in mezzo alle lande e che rammentavo di aver visto nel film, riconobbi, da lontano, il giardino. Una macchia di colori vivissimi, un profluvio di fiori che splendevano anche sotto il cielo grigio, tutt’attorno a una casa di legno, annerita col catrame.
Lasciai la bicicletta sul bordo della strada e mi avvicinai, sperando che in casa non ci fosse nessuno. Non c’era anima viva in giro. Il rumore del vento si mescolava a quello del mare, invisibile al di là delle dune. Feci il giro della proprietà, affascinato, senza osar entrare nel giardino che nessun muro, nessuna siepe proteggeva dagli intrusi.
Di giardini non me ne intendevo molto allora, ma sentivo confusamente che, in quell’assenza di recinzioni, c’era qualcosa di insolito, un’eccezione alla regola. Chi aveva coltivato quelle poche decine di metri quadrati di terra non aveva nemmeno tentato di nascondere le vedute sgraziate che lo circondavano. Come quella della centrale nucleare, la cui massa grigia era onnipresente, o la mesta distesa delle lande brulle di Dungeness, punteggiata unicamente di poche, povere casette di pescatori. E quale giardiniere non avrebbe cominciato col costruire un muro per riparare il giardino dal vento?
Da ciò che avevo capito, Derek Jarman era noto, come artista e come uomo, per il suo carattere iconoclasta. Così come gli piaceva sovvertire le regole del cinema, doveva essersi divertito a infrangere le buone norme del giardinaggio… Eppure, no, in quell’apertura totale del giardino al paesaggio che lo circondava, c’era qualcosa di più profondo, che mi commosse senza che sapessi perché. Era come se sentissi che quel luogo aperto a tutti i venti nascondeva un segreto, come un poema che non si capisce del tutto ma che, leggendolo, sentiamo che ci sta cambiando la vita.
L’assenza di recinzioni non era il solo tratto singolare del posto. Prospect Cottage non somigliava ad alcuno dei giardini che avevo visto fino ad allora. Selci erette, piantate nel terreno, creavano figure geometriche, dei quadrati e soprattutto dei cerchi, che costituivano strane aiuole minerali. Innumerevoli pezzi di legno levigati dal mare, probabilmente raccolti sulla spiaggia vicinissima e ai quali erano stati appesi sassi, pezzi di ferro rugginoso o conchiglie, costellavano lo spazio. Nel mio taccuino, scrissi: «Come le croci di un cimitero…» Ma i fiori erano ovunque, in cespi rigogliosi o isolati, in mezzo ai ciottoli.
Circondavano la casa come a proteggerla, fragili, pronti a piegarsi sotto il vento, ma risoluti. E tacitavano il sentimento d’angoscia generato dalle croci e dai rottami di ferro, trasformandolo in giubilo. Pensai che se le selci e i legni portati dal mare erano lo scheletro del giardino, quei fiori ne erano la carne. Una carne martoriata ma vigorosa, piena di vita nella giovinezza della primavera.
*
Ecco la storia di Prospect Cottage.
L’ho ricostruita grazie agli articoli reperiti qui e là nelle riviste di cinema e, in seguito, leggendo i brani che Derek Jarman aveva dedicato al suo giardino nelle sue ultime opere,1 ma anche a forza di ripensare a quel luogo così poco probabile. Difatti, in seguito alla mia visita a Dungeness, durante i miei anni di vagabondaggio attraverso l’Europa, mi capitava spesso di pensare a quell’uomo che non avevo mai conosciuto e che aveva finito per divenirmi familiare. Familiare come un vecchio amico, o un fratello maggiore

(continua in libreria…)

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