In questi tempi di aria così poco serena, in “3/19” (protagonista Kasia Smutniak), Silvio Soldini, il regista di “Pane e tulipani”, confrontandosi con il tragico e aiutandoci a dare nome e sepoltura ai nostri cadaveri, sa così donarci momenti di fecondità – La recensione del film

Se non saremo in grado di seppellire gli altri, seppelliremo noi stessi. Se invece riusciremo a guardare la morte in faccia, avremo forse modo di rinascere. Detto in Soldini.

Anche in questo caso, in maniera più sotterranea della recente e riuscitissima attualizzazione cinematografica di Antigone  di Sophie Deraspe, ma con altrettanta efficacia, si tratta in fondo di una riattraversamento del tragico (in un’epoca che tende a starne alla larga), con non a caso al centro la questione archetipica del dare sepoltura (e quella attualissima del dare nome e dignità ai migranti), di un consanguineo (tra-passato) e insieme di uno sconosciuto (presente-futuro), di una sorella e insieme di uno straniero, ché nella morte coincide intimo e altrove, specchio e mistero, responsabilità e speranza.

Anche qui, come nei recenti Tre piani di Nanni Moretti e in France di Bruno Dumont, secondo uno schema consolidato che sembra però ricorrere particolarmente nel cinema più significativo di questi tempi accidentati, è un incidente (un investimento per l’esattezza) a precipitare la vita della protagonista di fronte a quello che aveva rimosso, e a innescare un movimento narrativo e di consapevolezza, a costruire e costituire in verità il luogo segreto della responsabilità e  dunque la possibilità di una risposta (etimologicamente coincidenti).

Si tratta evidentemente di qualcosa che viene a galla, in un processo che è insieme confessione, detection ed emersione dell’inconscio, in un film in cui l’acqua – dal temporale fatale ai sogni di affogamento, dai bicchieri vuoti alla pienezza marina – ha una presenza/persistenza simbolica fortissima.

“Come un sipario di foglie” dice en passant il direttore dell’obitorio Bruno (decisiva figura e interpretazione di Franceso Colella), con metafora teatrale e botanica quasi buttata lì, ospitando Camilla Corti (Kasia Smutniak), avvocatessa d’affari apparentemente fuggita dalla vita e autorinchiusasi in un lavoro totalizzante, nello spazio momentaneo, frugalmente edenico, allestito nel retro della sua casa periferica.

Nel suo modesto giardino, (ac)coglie e intuisce un luogo intimo di lei che – è la prima immagine che introduce anche noi nel film – ha le fattezze di un bosco verde e fitto, che la donna visualizza, a più riprese.

Quando cala il sipario dei suoi occhi, provando a ritrovare respiro, si figura una natura (oasi di pace o selva oscura?) che rivela il suo bisogno di altrove e insieme la sua profonda impasse esistenziale. Del resto anche l’uomo, pur avvezzo alle crude e paradossali lezioni della pedagogia cadaverica impartita dal suo mestiere, dichiara di sentirsi da molti anni un sasso, e dunque riconosce subito e chiaramente l’atrofizzarsi emotivo della donna, l’istinto di morte che pare accomunarli.

Asseragliata in una ricchezza algida e vuota, che sembra possedere tutto e tutto avere sotto controllo, Cristina, che ha prosciugato ogni energia convogliandola nella spietatezza della trattativa e nel cinismo del business, si trincera dietro l’eleganti armature d’Armani e si reclude in architetture sterili di luci fredde, gabbie lavorative trasparenti e desensibilizzate.

Sopravvive in una Milano dall’anima inaridita (inedita visivamente, ma essenzialmente riconoscibilissima), fatta di rooftop dorati e distaccati, dove risuona il gergo spietato e anglofilo delle transazioni finanziarie, ossessionate dal falso godimento del signing e dai riti della celebrazione della performance, dove risuona il “gong stonato” di una lingua, affettata e affrettata, d’amore soltanto mimato, ridotto a scambio freddo e narcisistico di favori e oggetti. La donna, impegnata (non a caso) in una negoziazione su due tavoli per mettere d’accordo due fratelli che non si parlano più (che di sorellanza mancata pur ne sa qualcosa), perde il controllo e, in un giorno di tempesta, posseduta dall’impulso e dall’orgoglio, perdendo attenzione e lucidità, viene travolta da un motorino.

Si rompe solo un braccio ma, pur innocente nel suo statuto di pedone e vittima, comincia a elaborare, nell’ossessione per l’identità ignota di un morto rimasto sull’asfalto (quel numero, 3/19, che dà il titolo al film), i sensi di colpa di un trauma passato e i dolori anestetizzati di una vita intera.

La catabasi di questa donna transita dunque significativamente per la visita all’obitorio, dove si insinua perfettamente il cameo del regista (che, cocteauianamente, è colui che ha a che fare con “la morte al lavoro sul corpo dell’attore”, qui impersonata dal volto bellissimo – anche perché – segnato dal tempo e dal dolore della Smutniak), dove la camera mortuaria di uno sconosciuto le permette di intraprendere un percorso di discesa tanto esplicito quanto necessario (in cantina, in strada, in metro, al cimitero), teso a ritrovarsi e trovare una residua possibilità di vita (il rapporto negato con la figlia, una relazione amorosa, ma anche un semplice giro in bicicletta, il rumore del mare), che un percorso autopunitivo di evitamento, le avevano violentemente precluso.

Silvio Soldini, mentre le Madres Paralelas di Pedro Almodóvar provano a seppellire i loro morti (personali e storici), con il suo riconoscibilissimo stile personale, asciutto e acuto, sensibile ma non sentimentale, ci fa fare i conti, senza retorica e con parallela maturità, con cadaveri più vicini a noi. In questi tempi di aria così poco serena, il regista di Pane e tulipani, confrontandosi con il tragico e aiutandoci a dare nome e sepoltura ai nostri cadaveri, sa così donarci momenti di fecondità.

L’AUTORE: qui tutte le recensioni e gli articoli di Matteo Columbo per ilLibraio.it

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