C’è qualcosa di profondamente affascinante e seducente (che non a caso ha conquistato critica e pubblico, con qualche rara eccezione) nel personaggio di Hirayama, che Wim Wenders ha deciso di raccontare in “Perfect days”, il suo nuovo acclamato film – La recensione

Perfect days: la recensione

C’è qualcosa di profondamente affascinante e seducente (che non a caso ha conquistato critica e pubblico, con qualche rara eccezione e riserva social, di chi prova a distinguersi, forse per difendersi – la noia come sensazione maschera), qualcosa che evidentemente ci manca e di cui avevamo (abbiamo) bisogno, racchiuso nella vita semplice, regolare, umile e presente di Hirayama, il personaggio che Wim Wenders decide di raccontare in Perfect days, tornando nell’amata Tokyo di Yasujiro Ozu (mimandone/omaggiandone lo stile con delicato e saggio sguardo, e riuscendone a rievocare l’anima): nel nitore ascetico del modo di abitare il mondo di quest’uomo, nella dedizione certosina e Zen con cui si dedica al suo lavoro di pulizia delle toilette pubbliche, nel silenzio pacificato e attento che offre al suo lavoro e ai suoi interlocutori, nelle passioni rigorosamente analogiche vissute e mai ostentate, nei suoi tempi certi e posati, nel suo essere totalmente nel mondo eppure fuori dal mondo, nel suo farsi carico degli altri con discrezione, nel suo stare (quasi faustianamente: paradosso per un uomo che pare avere rinunciato alla lotta, eppure non allo streben a ben guardare) sospeso fra il basso (letteralmente: i bisogni corporali del mondo, di cui si fa carico) e l’altissimo (il cielo sopra Tokyo, che contempla e immortala in istantanee che paiono aneliti spirituali, preghiere che non hanno parole, ascesi essenziale e laica)

Kôji Yakusho, attore capace di aprirci mondi con microespressioni facciali e di far parlare i silenzi, giustamente premiato per questa interpretazione a Cannes, ne incarna i riti e i mutismi, gli sguardi fatici e le emozioni che lo abitano (abissi di pienezza, ma anche squarci di mancanza, che si intuiscono e si colgono in un racconto costruito sui vuoti e sulle ellissi, su un nucleo doloroso solamente alluso), con tale naturalezza da farci vivere con lui e per lui, (anche nostro) taciturno mentore.

Ecco che le giornate monotone di un addetto alla pulizia dei bagni pubblici (per i turisti in Giappone una delle avventure fantascientifiche più stupefacenti e indelebili di altrove è l’esperienza dei servizi sanitari: per disponibilità, tecnologia, pulizia, accoglienza) diventano il tempo dell’attenzione, della dedizione, della cura, sia essa la lettura lenta e metabolizzata (qui Faulkner di Le palme selvagge, il senso dell’ansia di Patricia Highsmith e le riflessioni sugli alberi della scrittrice giapponese Aya Koda), la foto analogica della luce fra le foglie (fenomeno che il giapponese circoscrive e rivela con la parola esatta e intraducibile di “komorebi”), il suono delicato di una scopa sul selciato al risveglio di ogni alba, o quello in transito delle musicassette, con le canzoni americane degli anni Sessanta e Settanta, colonna sonora di questi strani perfect days sullo scorrere ciclopico e labirintico della città, la coltivazione meticolosa e dedita dei bonsai o l’osservazione complice e tenera (solidale) dell’umanità urbana che soffre di analoghe solitudini, ciascuno a modo suo.

Wenders, chiamato inizialmente a girare un documentario sul progetto di una ventina di architetti di ristrutturazione dei bagni pubblici del quartiere di Shibuya, accetta quasi al buio, ma presto ha l’illuminazione e decide di trasformare lo sguardo documentario (di cui pure ha dimostrato di possedere la chiave felice in questi ultimi anni) per raccontare una storia in apparenza esile e ripetitiva, eppure capace di coinvolgerci lentamente attraverso indizi e allusioni, non detti e sguardi che scavano dentro, dando al protagonista uno spessore umano speciale e alle suo parole sporadiche e ficcanti la pregnanza di un dono: “La prossima volta è la prossima volta. Adesso è adesso”. Il rapporto con la giovane fidanzata del collega e con il distratto compagno di lavoro, poi, più a fondo, con la nipote adolescente e la sorella da un altro mondo, infine con la barista che canta e il suo ex marito, con il gioco peterpanesco a calpestar le ombre, costruiscono la forza di legami, apparentemente sporadici e lievi, in realtà resi possibili dalla potenza gentile dell’esempio e dalla forza calma del rito.

Forse non è un caso che Hirayama si specchi a distanza nel personaggio di un senza-fissa-dimora, una sorta di clown folle e inoffensivo impegnato in pose gestuali plastiche, che Wenders affida a Min Tanaka, attore e già danzatore butoh, che fa un lavoro su corpo e natura che fonde danza antigerarchica, recitazione e la pratica quotidiana dell’agricoltura.

Anche in dettagli apparentemente laterali come questi Wenders, con l’aiuto del co-sceneggiatore giapponese Takuma Takasaki, scrittore, direttore creativo e sceneggiatore di spot pubblicitari, riesce a far parlare Oriente e Occidente, ad aprire mondi, in un film che diventa inevitabilmente una riflessione/bilancio sul suo stesso essere regista cinematografico, e come la scrittura con la luce e le ombre sia capace di raccontare l’essenza dell’essere umano, la natura misteriosa dei suoi sogni e dei suoi segni.

Non si vedeva dai tempi dell’Auggie Wren di Smoke, il tabaccaio di Brooklyn che fotografava ogni giorno alla stessa ora il suo angolo di mondo a Park Slope, inventato/raccontato/rivelato da Paul Auster e Wayne Wang, un personaggio così angelico e portatore di un’attenzione, facoltà assoluta e amorosa come la intendeva Cristina Campo. E, contemporaneamente, oltre a filmare uno dei film dell’anno, Wenders ci regala anche un documentario su Anselm Kiefer (Anselm,appunto) di altrettanta bellezza e pregnanza. La senilità, per pochi ma non per tutti, pare aver nome saggezza.

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