“A distanza di ottant’anni è un dovere ristabilire la verità, ristabilire chi siano i colpevoli. Il nostro compito è quello di raccontare la storia con la piena consapevolezza, che ci dà la distanza temporale, che c’era un bene e c’era un male. Su questo, oggi, non possiamo e non dobbiamo più avere dubbi”. Agnese Pini, prima direttrice donna della Nazione e dal 2022 direttrice dei quotidiani del gruppo Monrif, arriva in libreria con “Un autunno d’agosto”, libro (tra saggio, memoir e romanzo) sull’eccidio nazista di San Terenzo Monti, in cui è stata coinvolta anche la sua famiglia. Intervistata da ilLibraio.it, l’autrice e giornalista ripercorre la storia della strage e sottolinea l’importanza di un tema spesso ignorato, quello della giustizia negata, alla base della lacerazione politica del nostro paese. Tra i temi di cui ci ha parlato, la condizione lavorativa femminile in Italia e i problemi del giornalismo nell’era digitale

Agnese Pini, prima direttrice donna della Nazione e, dal 2022, direttrice di tutti i quotidiani del gruppo Monrif (il Resto del Carlino, Il Giorno e Quotidiano Nazionale, oltre alla stessa Nazione, ndr), è in libreria con Un autunno d’agosto (Chiarelettere), opera dedicata all’eccidio nazista di San Terenzo Monti, piccolo borgo tra l’appenino toscano e le Alpi Apuane.

Una strage che si è consumata tra il 17 e il 19 agosto 1944 in rappresaglia a un’azione partigiana, una delle più importanti sulla linea gotica.

Un autunno d’agosto racchiude in sé tante forme, stilistiche in primis (dal saggio, al memoir, al romanzo) e tante suggestioni: è la storia di una comunità contadina povera e resistente, è la storia della famiglia di Pini, vittima dell’eccidio, in cui il trauma è stato tramandato di generazione in generazione, ed è la storia di una memoria a cui non è stata concessa la possibilità di elaborazione che solo la giustizia può dare. Ed è infatti la giustizia negata, il tema fondamentale che percorre ogni pagina del libro: la necessità, dopo ottant’anni di processi tardivi e lentezze giuridiche, di dare dignità alle vittime raccontando San Terenzo Monti e i suoi abitanti, le loro storie e i loro volti.

Agnese Pini, che abbiamo intervistato, ripercorre con delicatezza la storia della sua famiglia e quella degli altri abitanti del paese e, con rigore, analizza le responsabilità, le colpe e le lacerazioni che la nostra storia ci ha consegnato.

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Agnese Pini, fin dalle prime pagine, in parallelo al racconto della guerra, emerge quello di un’Italia rurale, contadina e arcaica, legata alla terra.
“È stata una scelta inevitabile, perché è la storia della mia famiglia e perché è una storia che accomuna quasi tutta l’Italia: le nostre radici sono contadine. Negli anni Quaranta le comunità erano ancora legate alla terra, alla vita dei campi, semplici, estremamente povere e ancora poco alfabetizzate. Nello spazio di poche generazioni, quello spazio contadino si è stravolto, è stato abbandonato e dimenticato, un processo veloce, che si è portato via anche gran parte delle nostre tradizioni. In questo libro la guerra è raccontata attraverso l’esperienza degli ultimi: paesi interi che vivevano e resistevano, perché, pur essendo – appunto – gli ultimi, non erano indifferenti. Cercavano la libertà dall’invasore, dai suoi soprusi e dai suoi crimini. Anche se non hanno combattuto una resistenza armata, hanno comunque resistito, portando avanti con fatica una quotidianità, delle famiglie, nonostante le tragedie, i lutti e il dolore”.

Tra le righe, infatti, emerge bene un aspetto comune ai conflitti armati, dall’occupazione nazista alla guerra in Ucraina: gli eccidi toccano gli ultimi, le persone comuni che diventano vittime di rappresaglia.
“I crimini di guerra si ripetono con uno stesso schema, al di là delle epoche storiche: avvengono sempre in luoghi poco esposti, al riparo dai riflettori e dalle telecamere. Nelle periferie, nei paesi, nei posti meno accessibili. E colpiscono sempre i più deboli, quelli che non hanno possibilità di difendersi: bambini, donne e anziani. È quanto successo sulla linea gotica nel ’44, a Mỹ Lai in Vietnam, o in Ucraina, a Bucha o a Bachmut. Il copione è sempre lo stesso. In Italia, dopo la guerra, c’è stata la volontà, di dimenticare, di nascondere sotto il tappeto gli orrori di cui si sono macchiati anche gli italiani”.

Ci può fare un esempio di questa rimozione?
“Per esempio si sosteneva che i soldati rispondessero agli ordini, ma è un dato smentito dalla stessa giurisprudenza: un soldato si può rifiutare di rispondere a ordini che comprendano crimini, un soldato non è costretto a uccidere bambini perché gliel’ha ordinato il suo superiore. Anche la storia della Seconda Guerra Mondiale, in Italia, racconta di soldati tedeschi o italiani che si sono rifiutati di compiere crimini, ma si è diffusa una vulgata sbagliata. Il nostro era un paese lacerato e l’assenza di giusti processi per quei crimini ha contribuito a creare confusione rispetto a cosa siano i crimini di guerra e come vadano perseguiti e raccontati. Questo ha danneggiato anche il modo in cui ci siamo fabbricati una memoria storica”.

Da questo punto di vista, parlando di eredità della guerra, in che modo i processi mai fatti, quelli tardivi, le amnistie, hanno influenzato il rapporto degli italiani con la memoria del ventennio fascista e della guerra?
“Quando, dopo un crimine, non si concede la giustizia, si crea un secondo trauma. La giustizia negata rappresenta una doppia ferita per chi è sopravvissuto, perché le vittime tendono ad auto-colpevolizzarsi, a vergognarsi, è una cosa che succede anche nei crimini comuni, ed è quello che è successo ai sopravvissuti dei crimini di guerra. L’assenza di giustizia ha contribuito a creare una memoria distorta: mia nonna non ha mai saputo chi fossero gli assassini di sua madre, non ha mai potuto dargli un volto, un nome. Per lei, quello che era accaduto a San Terenzo Monti era la furia omicida del Male con la M maiuscola, che arriva, stermina e se ne va, senza avere un volto e un perché. E questo porta a una rielaborazione che assomiglia quasi a una fiaba nera, in cui il male non ha connotazioni umane. La giustizia non elimina il dolore, ma gli dà un senso comprensibile e, quindi, permette di razionalizzarlo. È stato il grande torto che è stato fatto ai sopravvissuti: aver preteso che andassero avanti dimenticando il dolore. Tra il ’43 e il ’45, in Italia, ci sono stati 20.000 morti per crimini di guerra, dalle Alpi alla Sicilia, 1500 morti solo in Campania. E a questi numeri bisogna aggiungere i 40.000 deportati mai tornati. Tutte queste persone avevano delle famiglie, quindi il trauma personale dei sopravvissuti è diventato il trauma collettivo di un paese e ha impedito di coltivare una memoria condivisa”.

Da questo punto di vista, che significato ha avuto per una giornalista di oggi scrivere un libro sul fascismo di ieri?
“A livello giornalistico ha avuto un significato importante: chi fa questo mestiere sa che non deve dare giudizi morali alla cronaca, ma è doveroso dare una morale alla storia, perché ci consente di avere chiarezza rispetto a cosa sia stato il bene e cosa il male. L’eccidio nazista di San Terenzo Monti, come tanti di quel periodo, viene innescato da un atto di guerra riconosciuto – non un atto terroristico o un attentato – da parte di una formazione partigiana a seguito del quale muoiono 16 SS. Un’azione partigiana invocata dagli stessi abitanti del paese, che erano costretti a subire la violenza e la sopraffazione degli invasori nazisti, che li condannavano a una vita di stenti e privazioni. L’eccidio che ne è seguito ha provocato 159 morti, perché la legge della rappresaglia nazista prevedeva che, per ogni soldato tedesco ucciso, morissero 10 italiani. Ma l’assenza di giustizia ha provocato nei sopravvissuti di San Terenzo Monti la percezione di una sorta di colpa, da parte dei partigiani; mia nonna stessa ripeteva che, se i partigiani non fossero intervenuti, sua madre sarebbe rimasta viva. È un pensiero comprensibile se si pensa al dolore di una donna che ha perso un genitore in un modo così atroce: l’assenza di giustizia, di poter capire per mano di chi e perché una cosa del genere sia accaduta, ha portato come effetto collaterale inevitabile quello di trovare colpe in chi era più prossimo, dunque i partigiani. Ecco, a distanza di ottant’anni è un dovere ristabilire la verità, ristabilire chi siano i colpevoli. Il nostro compito è quello di raccontare la storia con la piena consapevolezza, che ci dà la distanza temporale, che c’era un bene e c’era un male. Su questo, oggi, non possiamo e non dobbiamo più avere dubbi”.

Qual è stato l’aspetto più difficile nel lavorare a questo libro?
“È stato molto faticoso emotivamente raccontare la ferocia, l’orrore, il modo in cui è avvenuto l’eccidio, dover affrontare la storia in una maniera molto più particolareggiata rispetto ai racconti di mia nonna, che erano filtrati da una chiave quasi onirica, come si trattasse di una fiaba nera. Leggere gli atti dei processi e le testimonianze, parlare con i testimoni e riscoprire attraverso i loro racconti le efferatezze di quei crimini e, poi, doverle scrivere, è stato complesso. Ho deciso di raccontare questa vicenda senza fare sconti, nel modo più oggettivo possibile, anche perché è il mio mestiere, ma in questo caso si trattava della storia della mia famiglia, quindi è stato più complicato”.

C’è un passo in cui scrive: “Il passato e il presente si mescolavano e si specchiavano in una domanda a cui sembrava impossibile replicare: come si impedisce l’orrore? Come si sfugge all’orrore?”. Agnese Pini, alla fine di questo lavoro, ha trovato una risposta?
“A questa domanda no, ma ho trovato risposta a una domanda simile, sulla possibilità di sfuggire alla paura. Viviamo costantemente immersi nella paura: ecco, un modo per tenerla a bada è quello di conoscere le cose. È faticoso, è doloroso, è emotivamente molto impegnativo ma dare un nome, una forma alle cose, è l’unico antidoto alle paure. Tutto ciò che ha una forma e un nome fa meno paura, perché è riconoscibile. È un tema, che, in fondo, ha a che fare anche con il mio mestiere”.

Cioè?
“Conoscere le cose fa parte dell’essere giornalisti ed è stato una parte fondamentale di questo libro. Tornare a guardare dentro la buca dell’orrore di quello che era successo a San Terenzo Monti mi ha consentito di avere meno paura”. 

Con La Nazione, Il Resto del Carlino e Il Giorno, avete lanciato il progetto Luce! dedicato a diversità e inclusione, in cui si sottolinea anche l’importanza dell’attenzione al linguaggio; un aspetto che nel lavoro giornalistico è fondamentale, a maggior ragione in un momento di forte cambiamento delle sensibilità. A che punto siamo?
“Sono ottimista: oggi, per la prima volta, se ne parla; si dice che raccontare le cose non basta e che bisogna trovare le parole giuste, perché non tutte vanno bene. Anche solo una decina di anni fa, all’interno delle redazioni, questo tipo di dibattito culturale non si poneva, mentre oggi esiste. Il progetto Luce!, prima ancora che per i lettori, nasce per i giornalisti: per dare a tutti noi l’obbligo di soffermarci a trovare le parole e le espressioni corrette per raccontare gli altri. Non basta l’attenzione alla deontologia, ci vogliono anche una sensibilità e un’etica adeguate. Grazie alla capillarità del web, le notizie oggi più che mai arrivano a un pubblico potenzialmente infinito, con una potenza e un’influenza sull’opinione pubblica dirompenti: abbiamo una responsabilità enorme. La strada da fare è ancora lunga, ma la riflessione all’interno delle redazioni sulle scelte lessicali adeguate per raccontare una storia ha già avuto una grande influenza sull’opinione pubblica”.

I giornali stanno assistendo a una inesorabile e fisiologica perdita di lettori, in parte per uno spostamento della ricerca di notizie sul web e l’emergere di nuove forme di fruizione dei contenuti, in parte per una mancanza di risorse: condizioni che si influenzano a vicenda. Le sembra ci sia un problema di autorevolezza del giornalismo? E che equilibrio c’è oggi tra carta e digitale?
“Ci troviamo in un’epoca storica che ha una portata enorme, perché siamo la generazione in assoluto più informata nella storia dell’umanità. L’informazione è sempre stata a pagamento ed elitaria, mentre oggi abbiamo una possibilità di informarci capillare, spesso gratuita, ovunque ci troviamo. L’informazione di massa è una grande conquista, perché implica che il potere che prima era appannaggio di pochi media che facevano informazione, oggi si sia trasferito sulle persone. Questo, ovviamente, ha anche degli effetti collaterali, perché a una grande quantità di informazioni corrisponde una grande disinformazione”.

Le fake news esistono da sempre.
“Sì, ma oggi sono presenti in quantità maggiori e vanno controllate. È necessario sapersi orientare nella massa di informazioni che fruiamo, è qualcosa che attiene alla formazione delle persone: per esempio dobbiamo imparare a utilizzare correttamente lo smartphone. Siamo in una fase rivoluzionaria e, per quanto riguarda i giornali, è evidente che siano stati travolti da un terremoto, ma si tratta soprattutto di una crisi dell’industria dell’informazione. La transizione dalla carta al digitale, come qualsiasi transizione, implica due cose, capitali e uomini, e le industrie editoriali mancano di entrambi. Si tratta di un processo estremamente costoso, che è stato intrapreso a piccoli passi e con grandi difficoltà, ma la fase più complicata è ormai passata”.

Lei nel 2019 è stata nominata direttrice della Nazione e, nel 2022, direttrice dei quotidiani del gruppo Monrif: come le sembra la condizione lavorativa femminile in Italia?
“Quello delle donne nel mondo del lavoro è diventato un tema di dibattito pubblico molto forte, se ne parla e gli effetti si vedono: per esempio, abbiamo una premier e una capa dell’opposizione donne, e non è una cosa banale se si pensa che ottant’anni fa non votavamo neanche. Però, poi, bisogna guardare anche i numeri. In Italia – e sono dati Istat – non lavora neppure 1 donna su 2: nel Meridione la percentuale scende a 1 su 3″.

Sono numeri bassissimi.
“Sì, senza dimenticare che la media europea è superiore al 60%, come in Grecia, per esempio. Ed è ancora più grave se si considera che l’Italia è uno dei paesi più industrializzati al mondo, la seconda manifattura d’Europa, tra i membri del G7. È giusto fare campagna sui vertici, sui capitali d’industria, sulle direttrici dei giornali, sulle politiche, perché sono simboli necessari, ma il problema in Italia è ancora presente alla base delle opportunità lavorative. Un paese che non impiega neppure la metà della sua forza lavoro femminile è un paese che si dimostra ancora estremamente arretrato su queste tematiche”.

Fotografia header: Agnese Pini, nella foto di NEW PRESS PHOTO

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