“Quando una storia finisce, in molti modi diversi una forma di estraneità si stabilisce al posto dell’intimità interrotta…”. Su ilLibraio.it la riflessione della scrittrice Ilaria Gaspari, che parte dalla scena finale del film “Sapore di mare”

La scena finale di Sapore di mare, quando sono triste ma non so il perché, mi salva sempre. La rivedo, e ogni volta finisce che scoppio a piangere come una vite tagliata. E dopo, mi sento piena di quella dolcezza che si ha solo dopo che ci si è commossi molto per qualcosa che insieme ci riguarda e non ci riguarda – credo sia questo, alla fin fine, che si intende per catarsi.

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Nel finale gli amici si ritrovano in un’altra estate, vent’anni dopo quella raccontata dal film. La Versilia anni Sessanta si è trasformata, in quell’ellissi temporale che non vediamo – li avevamo lasciati in un giorno di settembre, nella malinconia di piogge torrenziali e primi maglioni – nello stereotipo edonistico e chiassoso degli anni Ottanta, siamo alla Capannina, è sera tardi. Gli attori sono i ragazzi che erano fino a pochi minuti fa, invecchiati dal trucco in una maniera un po’ goffa ma tenera e soprattutto, per paradosso, realistica: perché, vedendoli così, mascherati da adulti, si ha la buffa sensazione che si prova nella vita, quando si incontra un amico d’infanzia dopo molti anni ed è impossibile vederlo direttamente come una persona di venti, venticinque, trent’anni, perché di certo all’improvviso riemergerà – in un’espressione che credevamo dimenticata, in un sorriso, nella postura o persino nella voce – il bambino che ricordavamo. Insomma gli amici non si vedono da molte estati, e ora sono di nuovo tutti lì.

C’è Luca, interpretato da Jerry Calà, tenero spaccone di vent’anni prima, che insieme a suo fratello Felicino (Christian De Sica) siede su un divanetto, champagne ghiacciato e ragazze bellissime. Lo vede da lontano Marina, che in quella famosa estate aveva avuto forse diciassette anni. È stato il suo primo amore e ovviamente l’ha ferita in un modo un po’ grottesco, ma ora succede che tutti gli stereotipi e tic bonariamente cinici della sceneggiatura si rompano, in questo incongruo finale. Perché quello che accade in una generica sera un po’ cafona di un’estate anni Ottanta alla Capannina, racconta con una precisione inaspettata il senso della fine di un amore.

Marina vede Luca, lo riconosce immediatamente, gli si avvicina. Lo saluta, è emozionata, impreparata a quell’incontro, intenerita fin quasi a imbarazzarsi. Scambiano poche parole, lei esita per l’agitazione, lui è crudele come sanno esserlo i superficiali, parla di vacanze, implicitamente di soldi, si vanta: vacanze in Corsica, vacanze in Sardegna. Lei non lo ascolta neanche, o forse sì, ma di sicuro sta seguendo un suo pensiero segreto, perché non la feriscono le chiacchiere banali di lui, la tristezza di quei discorsi fra estranei.

Devo tornare da mio marito, mormora a un certo punto, e se ne va; lui rimane lì, con gli amici, le ragazze giovani e bellissime, e chiede: Ma chi era? E a quel punto è l’amico a ricordarglielo, Ma come, era Marina!, divertito da quella dimenticanza che a noi, che abbiamo visto l’emozione di lei, non può non sembrare crudele – e invece è solo vera. Marina è sulla porta, sta andando via; la raggiunge un cameriere, le passa un bigliettino. Sei sempre la più bella, c’è scritto; gliel’ha mandato lui, lei adesso è felice, lancia un lungo sguardo fino al divanetto su cui Jerry Calà è rimasto seduto, fra champagne e ragazze. Nello sguardo di lei tremano le lacrime, in quello di lui non trema proprio niente, e chissà se è un problema di interpretazione; forse sì o forse no, ma non importa. Quello che conta è che per lei e per lui, questo incontro ha un significato completamente diverso. Quello che conta è che lei non saprà mai con certezza che lui l’aveva dimenticata, e non saprà, come non lo sapremo noi, se quel bigliettino era una maldestra riparazione, se era sincero, se era un sasso lanciato nell’acqua, se era un modo per consolarsi della giovinezza lontana, o per scusarsi dei discorsi vuoti sulle vacanze.

Quando una storia finisce, in molti modi diversi una forma di estraneità si stabilisce al posto dell’intimità interrotta. Qualche volta è possibile costruire un’amicizia, a partire da quell’estraneità; qualche volta si conservano alcune delle vecchie abitudini, per qualche tempo, o anche per molto tempo: sesso o conversazioni o anche i nomi che a volte gli innamorati inventano per le cose. Ma una qualche interruzione della vicinanza dell’amore, c’è per forza – altrimenti, va da sé, la fine della storia è solo un’illusione ottica. In quello spazio da cui la contiguità è bandita, si amplifica quello che la vicinanza nascondeva, ma che fa parte, per definizione, dell’amore: il fatto che si sia (almeno) in due, che due vite che si incontrano, per quanto si possano fondere, intrecciare, avvicinare a dismisura, rimangono pur sempre due vite. Ognuno, di una stessa giornata vissuta fianco a fianco, di uno stesso episodio, di uno stesso istante, costruisce un suo ricordo segreto, che rimane, si aggiunge a una rete di altri ricordi altrettanto inconsapevoli, indescrivibili e segreti. E quando ci si allontana, la forza di quei ricordi, e l’infinità degli attimi dimenticati, come pulviscolo, rimangono sospesi nella vita di ognuno, diventano rappresentazioni che nessun discorso, nessun obbligo di sincerità potranno davvero raccontare. E succederà che ognuno avrà la sua versione, e che quando ci si incontra, magari, si parlerà di vacanze in Corsica. Qualcuno dirà ti trovo bene, qualcuno penserà magari di aver ritrovato esattamente la persona che ricordava, qualcun altro no, e avrà ragione. Per fortuna, però, ci resta la catarsi.

Ilaria Gaspari - foto di Angelo Palombini
Ilaria Gaspari – foto di Angelo Palombini

L’AUTRICE – Ilaria Gaspari, classe ’86, si è diplomata in Filosofia alla Scuola Normale di Pisa e ha debuttato nel romanzo con Etica dell’Acquario (Voland).
Qui i suoi articoli per ilLibraio.it.

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