Anna Wiener non è un ingegnere informatico: è cresciuta a Brooklyn, fa l’assistente in un’agenzia letteraria, conduce una vita “ostentatamente analogica”. Nel suo memoir “La valle oscura” racconta i suoi cinque anni trascorsi nel regno dei big data. La sua è una cronaca particolareggiata e sarcastica di un mondo che fa sorridere, sì, ma con inquietudine… – L’approfondimento

“Non mi era mai passato per la testa che un giorno sarei diventata una delle persone che stanno dietro Internet, perché di fatto non avevo mai considerato che dietro Internet ci fosse qualcuno”.

Anna Wiener non è un ingegnere informatico: è cresciuta a Brooklyn, ha iniziato la sua carriera come assistente in un’agenzia letteraria, conduce una vita “ostentatamente analogica”. Nel suo memoir La valle oscura (titolo originale, Uncanny Valley, pubblicato in Italia da Adelphi, con traduzione di Milena Zemira Ciccimarra) racconta i suoi cinque anni trascorsi nel regno dei big data.

 La valle oscura

Siamo tra il 2013 il 2016, un periodo che, “a seconda della persona con cui parli”, è stato l’apice o l’inizio della fine per le startup della Silicon Valley – l’era degli unicorni, in cui le startup erano valutate dai loro investitori più di un miliardo di dollari. La Wiener è stanca del suo lavoro da assistente – “dopo tre anni”, scrive, “il brivido voyeuristico di rispondere al telefono di qualcun altro si era decisamente attenuato”.

Ha desideri piuttosto generici: vuole trovare il proprio posto nel mondo, guadagnare, sentirsi utile e brava. Per questo passa dall’altro lato della barricata, dritta tra le braccia dell’industria del tech.

Ma, come abbiamo detto, Anna Wiener non è un ingegnere informatico: è un’osservatrice. La sua è una cronaca particolareggiata e sarcastica di un mondo che fa sorridere, sì, ma con inquietudine. Il discorso diretto è ridotto all’osso, il racconto è completamente affidato a una pungente e a volte moralista prima persona: scorre via, solo a tratti ostacolato da tecnicismi che l’autrice stessa non dà l’impressione di aver interiorizzato. Difficile scindere la realtà dal punto di vista privilegiato della Wiener, tutto passa attraverso il suo sguardo da outsider.

La vediamo trasferirsi a San Francisco e iniziare a lavorare per una startup che celebra “il culto dei big data”. L’ufficio assomiglia a un appartamento, si comunica tramite messaggio anche con chi è seduto di fronte. I suoi colleghi, quasi tutti uomini, sono più giovani e più ricchi di lei, indossano t-shirt aziendali con scritto ‘I am data driven’ – “mi trattenni dal chiedere se tra ‘data’ e ‘driven’ non ci volesse il trattino” -, si riferiscono alla Silicon Valley come all’ecosistema, si dichiarano “devoti alla causa” e si muovono per l’ufficio sul waveboard rispondendo alle chiamate dei clienti dal telefono personale.

Sono loro, i legittimi abitanti dell’ecosistema: gli ingegneri informatici. Non lei, con il suo background letterario e la reticenza a diventare un’esperta di JavaScript. Loro vanno in ritiro a Bali per meditare e autorealizzarsi, lei insegue con l’aspirapolvere le blatte sulle pareti del suo appartamento in affitto. Per lei, in quel mondo, c’è spazio soltanto nell’assistenza clienti – tra tutte, l’unica mansione che implica il trattare con le persone.

Nonostante dichiari che, “sfortunatamente”, la sua vita inefficiente le piace, l’industria del tech esercita sulla Wiener un fascino malsano. Vuole crederci davvero, alla nascita di un nuovo sistema, di un nuovo modo di pensare e di vivere; è grata di avere la possibilità di contribuire a qualcosa che avverte come molto più grande di lei. Vuole lasciarsi trascinare dalla retorica dell’innovazione che pervade la Silicon Valley, credere alla disruption. E, di nuovo, avvertiamo un’intensa vicinanza all’autrice quando racconta di come il lavoro si fosse “incuneato” nell’identità sua e dei suoi colleghi: “noi eravamo l’azienda, e l’azienda era noi. […] Quella frenesia era inebriante, come lo era la sensazione che tutti fossimo indispensabili”.

Sentirsi parte di un tutto, di una squadra, di una famiglia; soprattutto, di un’élite illuminata, fautrice dell’innovazione, che in ogni crisi vede un’opportunità e guarda all’avvenire con entusiasmo. Ma, alle spalle di una startup di ebook, ci sono persone che scrivono “Hemingway” con due m; uno dei fondatori di una startup, destinato a diventare miliardario, incoraggia a scrivere libri più brevi per accrescere la velocità di apprendimento. Ed è qui la contraddizione più grande, è qui la frattura.

La Wiener vorrebbe discutere di empatia e “insegnare agli ingegneri l’uso corretto della punteggiatura”; all’amministratore delegato interessa eseguire analisi sulle prestazioni dei dipendenti. “Io parlavo di analisi compassionevole, lui di ottimizzazione. Io volevo una squadra di cuori teneri, lui di macchine”. Per quanto ci provi, l’autrice non diventa mai una di loro: resta sempre una di noi.

Neanche il corpo umano sfugge alla spasmodica corsa all’ottimizzazione: è esso stesso una piattaforma e, in quanto tale, va tenuto aggiornato con sonno regolare, attività fisica giornaliera e droghe ricreative. Lo scopo ultimo? “Un mondo di metriche affidabili […] libero dal peso delle decisioni, dalle inutili frizioni del comportamento umano, dove ogni cosa poteva essere ottimizzata, gerarchizzata, monetizzata e controllata”.

Il mondo che la Wiener descrive con tanta precisione sembra inaccessibile, governato da logiche inquietanti. È lontano da noi, eppure ci risulta familiare. In questo mondo, tutto ciò che non può essere misurato non esiste. Leggiamo di piattaforme progettate per raccogliere una quantità infinita di dati, per indurre a uno scrollare infinito e “riempire ogni istante libero con i pensieri di qualcun altro”; leggiamo di tempo che passa, inevitabilmente e senza lasciare traccia, mentre aggiorniamo con pigrizia le pagine dei social network; leggiamo dell’urlo collettivo di internet, di “piattaforme social pervase dall’intero spettro delle emozioni umane, un flusso ininterrotto di dolore, gioia, ansia, banalità”. Leggiamo tutto questo, e ne ricaviamo l’impressione urticante di star leggendo di noi.

“Cercavo delle storie”, scrive Anna Wiener, poco prima della sua decisione di rassegnare le dimissioni e allontanarsi dalla ‘Uncanny Valley’. “Avrei dovuto vedere un sistema”. In inglese, per ‘Uncanny valley’ s’intende la sensazione di profondo turbamento e di alienazione che si genera nell’essere umano quando viene a contatto con robot umanoidi.

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