In scena fino al 29 aprile al Teatro Elfo Puccini di Milano, l’adattamento drammaturgico del romanzo “L’Avversario” di Emanuelle Carrère, ad opera di Invisibile Kollettivo. Una lettura scenica che ha il merito di tradire la sua origine, svelando zone d’ombra e piste inattese di un classico contemporaneo da rileggere senza dubbio, anche nel buio di una sala teatrale – L’approfondimento

Cinque personaggi in cerca di orrore. L’orrore è naturalmente quello del fatto di cronaca nera reso celebre dal libro della maturità di Emmanuel Carrère, L’avversario (Adelphi), pubblicato nel 2000, già alla base del film omonimo del 2002 di Nicole Garcia con Daniel Auteuil, e alla cui vicenda si era ispirato anche il più riuscito A tempo pieno di Laurent Cantet del 2001, L’emploi du temps, a testimonianza di una forza immaginaria che questa storia possiede in sé e che un grande scrittore ha saputo rivelare ed esaltare: un uomo che mente a tutti per 17 anni, inventandosi una laurea in medicina mai conseguita e un lavoro di prestigio, decide nel 1993, probabilmente assediato da questa maschera e dai suoi demoni, e dalla possibilità concreta di essere scoperto, di trucidare moglie, figli e genitori, sopravvivendo ai roghi del massacro.

La pienezza/vuoto di tempo (quello impiegato nella zona d’ombra di una vita inventata priva di una vita vera, in attesa di tornare in scena nel ruolo di facciata) è qui, sulle tavole di un palcoscenico nero, ancor prima della paura del tempo, un horror vacui. Sì, perché questa lettura scenica peripatetica e densa – per regia, musiche, luci, coreografie dei movimenti, concezione registica, molto di più di una mera selezione del testo ma un vero e proprio spettacolo che concentra il libro in 70 minuti serrati – lavora prepotentemente sullo spazio. In un palco allestito in diretta, riempito gradualmente di una scenografia indiziaria, e smontato sotto gli occhi degli spettatori, tre uomini e due donne con in mano quasi sempre il testo di Carrère, inscenano una danza (macabra) complessa e articolata, attraverso le parole dell’autore, intorno al fantasma di Jean-Claude Romand e a questo strano assonante e geniale roman che lo scrittore francese traccia guardando il “mostro” e, senza reticenza, guardandosi allo specchio.

Così l’enigma di quest’uomo in questa versione teatrale è marcato innanzitutto dalla sua assenza, un vuoto attorno al quale si agitano i personaggi che hanno partecipato inconsapevoli alla finzione verissima della sua esistenza (ora circoscritta da una condanna all’ergastolo), e alle osservazioni, acute, ironiche e compassionevoli insieme, filosofiche e psicanalitiche senza mai risultare vuotamente speculative e teoriche, che l’autore concepisce intorno a questa identità abissale che ci interroga a lungo su temi quali la verità, il senso dello stare al mondo e del male. L’avversario è Satana certo ma, come ricorda Carrère ancora nel Regno, è la geniale battuta di Billy Wilder che, interrogato all’uscita di una proiezione del film Il diario di Anna Frank, si dice certo commosso, eppure incuriosito dal conoscere il punto di vista dell’Avversario.

Di questo punto di vista, impossibile e insondabile, rendono ben conto i vuoti che questa messa in scena è capace di produrre ed evidenziare: l’assenza/essenza fantasmatica del protagonista, si è detto, ma anche la presenza muta ed emozionante di un cane grigio scuro sul palco (troppo facile dire: il migliore in scena, del resto Truffaut, citato nel libro e nello spettacolo, conosceva bene la capacità bestiale di rubare la scena). In alcuni momenti pregnanti l’animale pare un correlativo oggettivo dell’impenetrabile tristezza e della silente minaccia che annida in ogni uomo. Ma si pensi anche a soluzioni apparentemente banali, come il tonfo di uno sgabello che cade e “non è una tragedia”, ripetuto in un gioco a canone, richiamato poi dalla caduta del libro (un libro sulla Caduta?), in uno spazio drammaturgico in cui gli oggetti (dalla cornetta telefonica al denaro, dalla locandina alla foto segnaletica, dalle panche alle grucce) parlano moltissimo nella loro muta suggestione, per finire poi tutti racchiusi nel buco nero di uno scatolone tombale. Ma il vuoto parla anche attraverso un lunghissimo ma necessario momento di silenzio (con l’eccezione di un flebile mugugnio canoro da ascolto in cuffia) in cui i protagonisti mimano, forse unica situazione in cui provano a dare corpo al fantasma, il tempo dell’attesa di Romand nel suo perenne alibi, nel suo quotidiano e ignoto altrove solitario. Si pensi anche al siparietto musical che, forse un tantino insistito e lezioso, evoca la discoteca, altro spazio di rumoroso silenzio.

Qui però veniamo alle (modeste) note dolenti, in uno spettacolo pieno di momenti geniali e potenti, e che pure merita di essere visto e vissuto: quello che un po’ si perde, nella scelta necessariamente distante e distinta sia dalle rese cinematografiche che dal libro, oltre al corpo del protagonista, ridotto a scampoli di voce in francese, e al testo delle dichiarazioni stesse proiettato in italiano, di alcuni dei momenti più agghiaccianti e commoventi insieme delle sue testimonianze in tribunale, è, mi pare, la tonalità emotiva di Carrère, quel rapporto di identificazione e distanza insieme che l’autore instaura, e solo lui sa instaurare, col suo oggetto d’ossessione, quell’asciuttezza, venata di intelligenza e ironia, che gli permette di far parlare questa storia così a fondo e con tale intensità. Talvolta, nei toni teatrali, finanche comicamente grotteschi e leggermente calcati di alcuni momenti, sembra smarrirsi quel raffreddamento affettivo che contraddistingue le pagine del libro e le fa indelebili, proprio nel loro controllo, emozionanti. L’esigenze del teatro sono diverse naturalmente da quelle del cinema e della scrittura, ma non sempre l’enfasi espressiva, la sottolineatura giocosa, l’agitarsi dei corpi, le citazioni colte (dalla parentesi musicale alla Ozon a alla proiettata della bugia di Antoine Doinel dai Quattrocento colpi, che pur c’era nel testo di Carrère, ma materializzata assume altro peso ed effetto) costituiscono un registro complessivo più ludico e scomposto, molto diverso da quello dalla voce dell’autore di La settimana bianca e Vite che non sono la mia.

Lungi dall’obbligo alla fedeltà al testo, anzi sempre meglio non perseguire una vuota replica, il lavoro di Invisibile Kollettivo (questa lettura scenica di L’avversario sarà in scena all’Elfo, sala Fassbinder, fino al 29 aprile) ha il merito e il coraggio di provare ad allontanarsi dalla sua origine, svelando così zone d’ombra e piste inattese (a voi giudicare i sentieri più illuminati e illuminanti) di questo classico contemporaneo da rileggere senz’altro, anche nel buio di una sala teatrale.

 

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L’AUTORE: qui tutte le recensioni e gli articoli di Matteo Columbo per ilLibraio.it

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