Margaret Atwood, autrice del bestseller distopico “Il racconto dell’ancella”, è una delle più importanti scrittrici contemporanee. Ora torna in libreria con “Le nostre vite – Una specie di autobiografia”. Per l’occasione, su ilLibraio.it pubblichiamo il testo del discorso tenuto dalla scrittrice canadese in occasione del Congresso annuale del PEN International, a Cracovia, in cui Atwood parla dei tentativi di censura e allarga la sua analisi alla delicata situazione mondiale (senza dimenticare, naturalmente, gli Stati Uniti): “All’affermarsi delle dittature, gli artisti di ogni tipo – ma soprattutto gli scrittori – sono sempre fra i primi ad affrontare i plotoni di esecuzione…”

Per gentile concessione dell’autrice, e della casa editrice Ponte alle Grazie, pubblichiamo qui di seguito la traduzione italiana, a cura di Alba Bariffi, del discorso tenuto da Margaret Atwood lo scorso 2 settembre in occasione del Congresso annuale del PEN International, a Cracovia.

Buongiorno, sono Margaret Atwood e vi parlo da Toronto, in Canada. Mi piacerebbe molto essere lì con voi nella bellissima città di Cracovia. Ma dato che non è possibile, eccomi su uno schermo, grazie alle meraviglie della tecnologia moderna.

Colleghi scrittori, è un grande onore per me parlare oggi a questo congresso, e in ottima compagnia. Io e Graeme Gibson, il mio compagno che ci ha lasciato, visitammo per la prima volta la Polonia nel 1984, quando faceva ancora parte del blocco sovietico. Allora conoscevamo diversi scrittori polacchi – compresi Ryszard Kapuściński e Tadeusz Konwicki – e abbiamo sempre ammirato il modo in cui gli artisti polacchi hanno resistito ai tempi difficili: con inventiva, creatività, coraggio e astuzia. E, in quei tempi lontani, con i samizdat, ossia manoscritti che non potevano essere pubblicati ufficialmente ma venivano copiati e passati di mano in mano, da uno scrittore all’altro. Graeme e io ne ricevemmo uno durante quella visita in Polonia. Non potevamo leggerlo, non sapendo il polacco, ma il fatto stesso della sua esistenza era simbolico, e ciò che simboleggiava era la speranza.

Ai nostri giorni, in un mondo soggetto a un periodo di profonda instabilità, la Polonia si trova ancora una volta in una posizione geopolitica potenzialmente vulnerabile. È molto appropriato che questo convegno del PEN International si tenga in Polonia: la gestione del rischio fa parte del DNA polacco da lungo tempo, e fare lo scrittore è in sé un’attività rischiosa.

Perché? All’affermarsi delle dittature, gli artisti di ogni tipo – ma soprattutto gli scrittori – sono sempre fra i primi ad affrontare i plotoni di esecuzione. Non hanno eserciti. Non hanno effettivo potere fisico o legislativo. Non hanno una base di elettori. Sono individui isolati, e pertanto facili da eliminare. Soprattutto, dicono cose che gli autocrati non vogliono sentire, e non vogliono far sentire agli altri. Questo è vero sia che l’autocrate sia di destra o di sinistra, che sia religioso o laico. Per persone simili gli artisti sono una minaccia, perché la loro arte presenta l’umanità a tutto tondo, in tutta la sua complessità: il buono, il brutto, il cattivo. Questa umanità complessa è ciò che gli autocrati desiderano distruggere, per sostituirla con una propaganda che dia un’immagine perfetta di loro stessi. Bruciare un libro significa bruciare una parte dello spirito umano. E i roghi di libri – come le liste di libri proibiti – sono in aumento.

Graeme, io e un gruppetto di altri scrittori fondammo il PEN Canada (di lingua inglese) nel 1983, per affrontare il problema degli scrittori che in altri paesi venivano proscritti, esiliati, messi a tacere e assassinati: sì, avveniva già allora, più di quarant’anni fa. Negli ultimi decenni il fenomeno è cresciuto. Centinaia di giornalisti sono stati presi di mira e addirittura uccisi, perché i giornalisti raccontano quello che vedono, e spesso vedono cose che non dovrebbero vedere. Portano testimonianza. La parola “martire” significa “testimone”. I giornalisti assassinati sono martiri della verità.

Nel 1981 George Woodcock, studioso di Orwell, diceva:

“Le rivoluzioni non sono la realizzazione di visioni idealistiche degli scrittori; sono esplosioni sociopolitiche in cui il crollo di una struttura di potere esistente crea un vuoto dove irrompono numerose forze. … La libertà che poteva essere il desiderio dominante nel periodo prerivoluzionario è la prima vittima della lotta per il potere. Gli scrittori e gli altri artisti, qualunque fosse il loro ruolo prima della rivoluzione, adesso appaiono come dei ribelli – perché rappresentano l’intelligenza libera – a tutti coloro che cercano di imporre nuove forme di potere”.

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Margaret Atwood Le nostre vite Ponte alle Grazie

Noi stessi stiamo vivendo, a quanto sembra, il crollo di una struttura di potere esistente: quella degli Stati Uniti. Verso l’esterno, sembrano voler abdicare alla loro posizione di potenza dominante mondiale. Internamente, sembrano voltare le spalle alla loro identità, un tempo così celebrata, di democrazia aperta e liberale – pronta a tenere alta la fiaccola della libertà, un faro nella notte per i satelliti sovietici oppressi durante la Guerra fredda – flirtando proprio con il tipo di autocrazia cui un tempo si opponevano con tanta fermezza.

Fuori dai confini, gli altri paesi non fanno più quello che dicono gli Stati Uniti: guardiamo la Russia, Israele, l’Ucraina e l’India, a titolo di esempio. Guerre e lotte di potere stanno scoppiando ovunque. E dentro i confini, l’attuale governo sembra determinato a distruggere od occupare istituzioni americane consolidate nei secoli. Un sistema elettorale equo, una giustizia indipendente dal potere esecutivo, solo per citarne due. Il ministro della salute, per esempio, sembra voler condurre un bizzarro esperimento darwiniano, la sopravvivenza del più forte: vediamo chi vive e chi muore se togliamo ogni protezione contro malattie letali. A quale scopo? E chi lo sa? Forse l’eliminazione delle persone povere, perché non sono abbastanza sane? Non mi sorprenderebbe. L’uso delle forze armate per intimidire i cittadini è un altro segnale importante; sono misure che molti paesi europei degli anni Trenta conoscevano bene.

Un’avvisaglia dei colpi di stato autocratici è il tentativo di controllare scrittori e artisti, o censurandoli e dettando loro quale arte produrre – nell’ultimo decennio abbiamo visto istanze simili venire dalla cosiddetta sinistra accademica di Nordamerica e Gran Bretagna, in tandem con il mobbing online comunemente noto come cancel culture – oppure proibendo i libri e cercando di intimidire università e organi d’informazione, cosa che adesso negli Stati Uniti vediamo su scala imponente. Le armi di ricatto sono denaro e cause legali, e hanno avuto un certo effetto. La maggior parte delle persone stipendiate, per natura, ha timore di contrapporsi all’autorità, o perlomeno a qualsiasi autorità abbia il potere di licenziarle. Guardando indietro alla Rivoluzione francese – il prototipo di tutte le rivoluzioni da quel momento in poi – farò notare solo che uno dei suoi primi obiettivi dichiarati fu la libertà di espressione, valore che abbracciò finché i suoi capi non ottennero il potere. Dopo, incredibile a dirsi, si instaurò una rigorosa censura, si distrussero macchine da stampa, chi aveva pubblicato idee discutibili fu decapitato. Durante il Terrore potevi essere giustiziato solo per il sospetto di aver pensato pensieri controrivoluzionari: uno psicoreato, come l’avrebbe chiamato Orwell. Al momento, chi entra negli Stati Uniti può vedersi controllare telefono e computer alla ricerca di psicoreati contro il governo Trump.

Gli scrittori che si mantengono da soli non temono di essere licenziati. I loro datori di lavoro sono i lettori. Per questo motivo si sentono chiedere spesso di parlare di argomenti difficili e di dire pubblicamente cose che molte persone pensano in privato. Ed ecco perché sono qui con voi oggi: perché non ho un posto fisso.

Per una mera coincidenza, proprio mentre scrivevo questo discorso è giunta la notizia che il direttivo di una scuola di Edmonton, nell’Alberta, su istruzioni del governo provinciale, ha bandito il mio libro Il racconto dell’Ancella dal suo sistema scolastico – le aule, le biblioteche – perché sarebbe pornografico. È abbastanza buffo: quel libro è stato criticato più spesso per il suo non essere pornografico; perché contiene atti sessuali che non sono sexy. Infatti non volevano esserlo: dopotutto, si svolge in un regime puritano. Quindi nei media canadesi infuria una piccola tempesta, dato che in Canada si tratta del primo tentativo di proibire dei libri applicato a una provincia. Comunque mi trovo in buona compagnia: la lista comprende anche Il mondo nuovo e 1984. Non si vuole, immagino, che i giovani pensino alle dittature.

Sono lieta di poter dire che il PEN Canada sta protestando contro queste liste di libri proibiti. Il suo attuale presidente, Ira Wells, ha appena pubblicato un volume dal titolo On Book Banning, quindi si intende dell’argomento. Forse il governo dell’Alberta metterà al bando anche il suo libro.

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Il che ci riporta al PEN, la straordinaria associazione internazionale cui apparteniamo. Ogni tanto noi del PEN forse ci chiediamo: a cosa serve tutto questo? Cosa possono fare dei semplici scrittori per gli enormi problemi mondiali che ci troviamo davanti: guerra, carestie, genocidi, crisi climatiche? Sarà vero che la penna è più forte della spada? Non quando hai un cappio intorno al collo. Ma fino a quel momento – auspicando che non venga mai – possiamo almeno tenere un po’ aperta la porta, possiamo tenere un po’ accesa la candela. Possiamo dare un po’ di speranza a chi è stato imprigionato per ciò che ha scritto. Un po’ di speranza vale pure qualcosa. Anzi, vale molto, sapere che non si è stati dimenticati. Soprattutto quando, a volte, quel po’ di speranza è l’unica cosa che una persona ha.

Durante il nostro periodo attivo nel PEN, negli anni Ottanta e Novanta, l’associazione riuscì a salvare alcuni scrittori. Ma altri non li salvammo. Morirono, o furono uccisi. Come in ogni altra cosa, non ci sono certezze. Ma questo non ci ha impedito di tentare. E non lo impedisce a voi.

Dunque, colleghi scrittori, vi auguro tutto il meglio per questa assemblea. Imparerete, informerete gli altri; farete dibattiti, approverete risoluzioni, rafforzerete la vostra dedizione all’importanza della lingua e delle storie, ai principi della libertà di espressione e dei diritti umani fondamentali. Lo credo fermamente.

Grazie, e un caro saluto.

L’AUTRICE –  Cresciuta da genitori scienziati – padre entomologo, madre dietologa – la canadese Margaret Atwood, una delle più importanti scrittrici contemporanee, ha trascorso la prima parte della sua vita nelle foreste del Québec: la sua è stata un’infanzia libera e nomade, a volte solitaria, ma anche emozionante.

Da questo inizio non convenzionale, l’autrice del bestseller distopico Il racconto dell’ancella, da cui è tratta l’omonima serie The Handmaid’s Tale, nel nuovo libro, l’autobiografico e atteso Le nostre vite – Una specie di autobiografia, sempre edito da Ponte alle Grazie (nella traduzione di Alba Bariffi, Guido Calza, Margherita Crepax e Serena Daniele), che esce in contemporanea mondiale (titolo originale Book of Lives. A memoir of sorts – Penguin Random House), dipana la storia della sua vita, collegando i momenti fondamentali ai libri che hanno plasmato il nostro panorama letterario: dall’anno crudele che ha generato Occhio di gatto alla Berlino orwelliana degli anni Ottanta in cui è nato Il racconto dell’Ancella.

In Le nostre vite troviamo incontri fantastici, la vita magica con il carismatico marito Graeme Gibson e importanti svolte politiche. E poi incontriamo poeti, orsi, attori hollywoodiani e grandi protagonisti del XX secolo. Mentre viaggiamo con Atwood lungo il corso della sua esistenza, ci viene rivelato sempre di più sulla sua scrittura, sulle connessioni tra vita reale e arte, e su come funziona la mente di una grande intellettuale e scrittrice, sovrana dell’immaginario.

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Fotografia header: Margareth Atwood nella foto di Luis Mora

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