“Non c’è nostalgia della civiltà contadina precedente alla tumultuosa modernizzazione iniziata negli anni Sessanta…”. Su ilLibraio.it la riflessione dello scrittore Romolo Bugaro, che si sofferma sulle contraddizioni del suo Veneto e parla degli autori che oggi le raccontano: “Quasi nessuno dei ‘nuovi’ scrittori, a differenza dei maestri delle generazioni precedenti, da Meneghello a Rigoni Stern, da Zanzotto a Camon (che pure hanno declinato il loro sguardo al passato in forme molto diverse) rimpiange il tempo trascorso…”

Il Veneto di oggi offre alcuni dei paesaggi più belli d’Italia e forse d’Europa, e alcuni dei più brutti. Spesso questi e quelli sono dislocati a poche centinaia di metri di distanza gli uni dagli altri. È impressionante transitare attraverso periferie disseminate di edifici costruiti senza alcun criterio, alcuna armonia, in un puzzle caotico di volumi e fratture di volumi, e all’improvviso, dopo un ponte o una curva, ritrovarsi davanti un castello medievale circondato da alberi secolari o una piazza talmente bella da incantarti, da stordirti. Chi percorre il Ponte della Libertà per raggiungere Venezia si lascia alle spalle un paesaggio industriale straordinariamente grigio e ha davanti a sé una delle città d’arte più affascinanti del mondo. Come se, per poter raggiungere il bello, bisognasse prima pagare una specie di dazio, attraversare una impressionante concentrazione di brutto. Direi che nel Veneto una simile discontinuità, o contrapposizione, costituisce la regola.

In questo territorio polarizzato verso gli estremi si muovono molti scrittori. Giulio Mozzi, Francesco Maino, Marco Mancassola, Vitaliano Trevisan, Tiziano Scarpa, Roberto Ferrucci, Mattia Signorini, Marco Franzoso, Giancarlo Marinelli, Matteo Righetto e altri ancora, per limitarci a quelli nati dagli anni sessanta in poi. Molti di loro tentano di fare i conti con la doppia anima del territorio nel quale vivono. A volte il sentimento dominante è la rabbia. Un autore come Francesco Maino non riesce a conciliarsi con il cartongesso delle costruzioni e dei pensieri, e racconta gli orrori del presente con una lingua straordinariamente densa e controllata, che tocca spesso le corde del grottesco e della comicità. In altri prevale lo spaesamento, la difficoltà di coincidere. In un testo uscito qualche anno fa, Fantasmi e Fughe, Giulio Mozzi raccontava il girovagare per Padova di un padovano incapace di trovare un luogo nel quale riconoscersi, riposare, se non, forse, una paninoteca a tarda sera, di ritorno dall’ennesimo viaggio in treno. La sua città non gli appartiene. I luoghi nei quali ha sempre vissuto sembrano sconosciuti. È un testo di grande forza e bellezza che cattura con precisione la distanza che a volte si apre fra le persone e il loro stesso ambiente, il loro mondo. Altre volte ancora prevale una riflessione più critica, per certi versi più politica, sugli assetti attuali del Nordest. Un autore come Roberto Ferrucci osserva i canali e le fabbriche di Porto Marghera, le grandi rotatorie di San Giovanni Lupatoto, e si interroga sul passato e sul futuro del modello di sviluppo del Nordest.

Tutti gli autori che ho citato hanno fornito, in forme e modi diversi, il loro contributo al racconto del Veneto di oggi. Non credo sia utile interrogarsi qui sull’esistenza o meno di tratti comuni e riconoscibili nel lavoro di questi autori. Forse è più utile l’esercizio opposto, e cioè notare l’assenza evidente di un elemento: la nostalgia della civiltà contadina precedente alla tumultuosa modernizzazione iniziata negli anni Sessanta. Quasi nessuno dei “nuovi” scrittori veneti, a differenza dei maestri delle generazioni precedenti, da Meneghello a Rigoni Stern, da Zanzotto a Camon (che pure hanno declinato il loro sguardo al passato in forme molto diverse) rimpiange il tempo trascorso. Forse perché sono consapevoli che, a fronte dei molteplici e gravissimi guai della contemporaneità, la situazione nella prima metà del secolo scorso poteva considerarsi perfino peggiore. Agli inizi del Novecento nelle campagne del Polesine o nelle montagne del bellunese si soffriva la fame, i contadini erano sfigurati dalla fatica e le loro mogli erano delle schiave. Certo esisteva un forte senso di comunità, forti valori condivisi. Ma i figli del boom, della trasformazione, non hanno conosciuto quel mondo ormai dissolto. Al massimo lo hanno sfiorato, senza portarsi addosso il suo marchio di fuoco. Gli scrittori veneti nati dopo il 1960 hanno vissuto la velocissima rimodulazione delle forme della produzione, della socialità, della vita stessa. Il maggior impegno di molti di loro è proprio il racconto della trasformazione.

Effetto domino Romolo Bugaro

L’AUTORE*- Romolo Bugaro (1962, Padova) ha pubblicato La buona e brava gente della nazione (Baldini e Castoldi 1998, finalista al Premio Campiello), a cui sono seguiti, per Rizzoli, i romanzi Il venditore di libri usati di fantascienza (2000), Dalla parte del fuoco (2003) e Il labirinto delle passioni perdute (2006, finalista al premio Campiello). Per Einaudi ha pubblicato Effetto domino (2015). Nell’ultimo romanzo, si parla di uomini abituati a esprimersi solo attraverso il denaro. Uomini che non vanno liquidati con facili parole: lo sa bene Romolo Bugaro, che – oltre a essere uno scrittore ipnotizzato dal mondo – è un avvocato che conosce da vicino, per lavoro, le traiettorie di ascese e fallimenti. Ritrarli con verità, nel bene e nel male di cui sono capaci, è la scommessa di questo suo romanzo. Perché la verità non indebolisce il giudizio etico, anzi lo rafforza proprio nella misura in cui lo complica. Quando uomini come questi si mettono in testa di concludere un grande affare – ad esempio di costruire una città di lusso nella provincia veneta, facendola spuntare come un fungo dall’oggi al domani – niente può fermarli. O forse sí. Forse può accadere che il semplice «no» di una banca produca un effetto domino senza fine, travolgendo le esistenze di tutti. Grandi costruttori, piccoli imprenditori, camionisti, casalinghe, bambini ignari di ogni cosa. Perché quando la valanga comincia a rotolare non c’è salvezza per nessuno. Ma non tutto è come sembra, in una storia di uomini ossessionati dal lavoro, dal denaro e dal potere al punto da apprezzare l’abilità di chi è riuscito a fregarli. E forse l’espressione tecnica «segnalazione a sofferenza» può diventare per molti una metafora perfetta…

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