Rosa Matteucci “scrive davvero”, osservava una ventina d’anni fa Carlo Fruttero. La scrittrice torna in libreria con “Cartagloria”, ancora una volta ampio e modulato monologo in forma di spezzoni d’autobiografia immaginaria. Un libro in cui l’autrice, o meglio il doppio narrante di sé, non si risparmia nulla…
Rosa Matteucci “scrive davvero”, osservava una ventina d’anni fa Carlo Fruttero prendendo in esame Lourdes, Libera la Karenina che è in te e Cuore di Mamma, uscito allora: romanzi che gli parevano finalmente importanti rispetto alla “prosa omeopatica” a suo vedere sempre più diffusa, quella che gli ricordava la “musique de robinet” contro cui se l’era presa, giustamente, Maurice Ravel.
Scrivere davvero non significa avere, che so, un lessico lussureggiante e magari bislacco, e tantomeno sperimentale, ne è questione di “parole difficili e ricercate” né di inseguire la “bella pagina”, ma saper farsi leggere con attenzione e non come l’equivalente di una soap opera, magari con “piccoli spostamenti di avverbi, aggettivi divelti dal loro consueto sostantivo, similitudini non bislacche e tuttavia impensate, oggetti quotidiani, ‘bassi’, infilati tra nobili o tragici eventi”.
È un ritratto critico perfetto, in cui è facile riconoscere la Matteucci di sempre e di oggi, che torna per Adelphi con Cartagloria, ancora una volta ampio e modulato monologo in forma di spezzoni d’autobiografia immaginaria: si parte da un’infanzia mutilata d’affetti in una cadente villa patrizia colma di reliquie piuttosto repugnanti, e per di più spogliata dai creditori soprattutto a causa di una padre giocatore incallito, che oltretutto non riesce a incamerare la ricca eredità d’una zia perché dovrebbe esibire un paio di guanti donati dalla defunta alla nascita della protagonista: uno dei quali però si è perso.
Si arriva poi molto lontano, dopo un lungo pellegrinaggio nel mondo del sacro. “In casa – leggiamo all’inizio, come da microepisodio assai programmatico – restarono soltanto le banconote del Monopoli, che io speravo che prima o poi mio padre, con una magia, avrebbe trasformato in soldi veri. Scalza e sprovvista di cartella per andare a scuola, potevo tuttavia mangiare noci, castagne e cachi a volontà. Soprattutto castagne crude”.
Il quadro dal vago sentore dickensiano (ma decisamente beffardo) è già un campione ottimo per comprendere il passo di un libro solcato da un’ironia che si potrebbe definire lessicale. Di lì in poi, sentendosi frodata di una “vera” Prima Comunione, ottenuta sì ma in modo abusivo e quasi indecente, l’età matura della protagonista-voce narrante sarà tutta spesa nella ricerca del divino (ma per fargliela pagare una volta tanto), fra chiese cattoliche, pellegrinaggi indù come il notissimo Kumbh Mela (“ancora oggi mi stupisco come sia uscita viva”), incomprensibili pratiche buddiste, incontri e scontri con fattucchiere e infine il trionfo della messa in latino celebrata ormai quasi clandestinamente, su cui la narratrice diviene espertissima: il titolo stesso, come forse pochi sanno, fa del resto riferimento a una delle tre pergamene che nel rito tridentino vengono poste sull’altare.
Scopri le nostre Newsletter

Notizie, approfondimenti e curiosità su libri, autori ed editori, selezionate dalla redazione de ilLibraio.it

Né manca il pellegrinaggio “nel santuario mariano per eccellenza, Lourdes, stella rutilante di leggende e risibili superstizioni” che richiama il precedente romanzo foriero peraltro, scopriamo, di qualche soddisfazione – forse dovuta però a certe arti misteriose in una fattucchiera, prima di riconoscerla apertamente come strega pericolosissima. Rosa Matteucci, o meglio il doppio narrante di sé, non si risparmia nulla; disgrazie e disavventure sono il suo pane quotidiano, il sacro l’avvolge con una cappa di fastidio, volgarità, particolari inessenziali e sgradevoli, oppure la seduce e la frustra; il divino, anzi lo stesso Dio, brilla però per l’agilità nel sottrarsi, proprio come il guantino fatale; e l’ascesi persino sgangheratamente misticheggiante della bambina cresciuta con la consapevolezza che “per me il diritto a restare in vita era stato sempre una sfida all’arma bianca contro il fato, per motivi che ignoravo, a me ostile” si svolge così pur fervidamente all’insegna del disagio e del disastro, in una ridda di disavventure non poco grottesche: e naturalmente in una spietato racconto, a volte generoso a volte sarcastico, di situazioni al limite della parodia.
Scopri la nostra pagina Linkedin

Notizie, approfondimenti, retroscena e anteprime sul mondo dell’editoria e della lettura: ogni giorno con ilLibraio.it

Mario Vargas Llosa ha scritto che l’artista, lo scrittore, nella sua ribellione contro la realtà, in ultima analisi si ribella a Dio: e così sembra pensare anche la protagonista di Cartagloria, che vorrebbe essere religiosissimamente appagata e ci riuscirà, forse, solo alla fine, con una madonnina di gesso in un vicolo genovese. Ma non è detto, Rosa Matteucci ci lascia nel segno di un’ambiguità dolorosamente festosa. Lei forse non vorrebbe ribellarsi, vorrebbe semmai essere avvolta dal sacro e trarne sicurezza e conforto, ma ha uno sguardo troppo attento ai particolari per potersene convincere a fondo. Non è la sua una sfida biblica in senso proprio, non appartiene all’atavico ma al moderno, si direbbe dunque una sfida nevrotica. Da quel Dio minaccioso e lontano, anzi sfuggente, nei confronti del quale ci si sente nello stesso tempo in difetto e in credito, si tratta semmai di difendersi: proprio come avviene in un capolavoro indiscutibile come il Male oscuro di Giuseppe Berto nei confronti di un padre ben poco divino ma ex maresciallo dei carabinieri e poi cappellaio senza troppa fortuna.
I punti d’incontro o quantomeno le risonanze sono molti e sorprendenti, a partire dalla scrittura stessa di Cartagloria, così ricca, dolorante e autoironica, ora fluviale ora spezzettata come in singhiozzi, e a tratti comica. Pare un legame di necessità, forse non programmato: ma proprio l’accumularsi delle disgrazie religiose, che si traducono anche in traumi, in gravi danni fisici, in malesseri d’ogni genere, insomma in una sorta di perenne malattia sembra correre parallelo al calvario ipocondriaco di quel gran libro. La stessa prosa, densa di sorprese linguistiche tra stile alto e stile basso, pare suggerire con insistenza la possibilità che anche il pensiero di Dio sia, al fondo, un “male oscuro”. C’è del resto la figura del padre a far da tramite: un padre pur molto amato che condiziona la protagonista con il suo scarso senso di responsabilità, e al di là degli inconvenienti quotidiani o finanziari trova la sua apoteosi soprattutto in due scenari costruiti tra visione e sogno: immaginato cioè dalla protagonista nelle sembianze d’un ufficiale austroungarico alla battaglia di Austerlitz e di un dinoccolato capitano nelle acque insanguinate di Lepanto. Mentre combatte e sconfigge i Turchi è distratto però da un pensiero predominante: ricavare dalla grande strage i numeri che appena possibile giocherà al lotto.
Nella realtà romanzesca è invece morto assai banalmente, perché mal curato dopo un incidente stradale, e questa è un’altra ferita immedicabile, per la quale la protagonista esige una spiegazione, “almeno dalla Madonna, casomai l’altro non si fosse fatto trovare”. L’Altro, ormai lo sappiamo, non fa che sfuggire. Ma anche il padre terreno, com’è ovvio, non è da meno: con la sua distanza traditrice sembra anzi conquistarsi forse surrettiziamente il ruolo di motore non certo immobile di una sublime mistica dell’insensatezza e del disastro.
Scopri il nostro canale Telegram

Ogni giorno dalla redazione de ilLibraio.it notizie, interviste, storie, approfondimenti e interventi d’autore per rimanere sempre aggiornati
