“Chi come me” di Roy Chen, dedicata a un gruppo di adolescenti fragili in un centro di salute mentale di Tel Aviv, è una pièce teatrale vibrante di vita. L’autore, uno dei più acclamati scrittori israeliani, mette mano a un’esplorazione lucida e non scontata sull’identità. Ora in libreria, “Chi come me” in primavera approderà sul palcoscenico del Teatro Franco Parenti di Milano grazie a Andrée Ruth Shammah, alla sua ultima regia

Cosa c’è di più liberatorio di mettere una maschera e non essere noi per un po’? Il teatro ha questo potere, mascherarci per nasconderci da noi stessi, renderci invisibili al mondo e al tempo stesso far uscire quello che a volte sembra impossibile riuscire a sopportare, dando voce a quanto appare proibito. Lo diceva così bene Eduardo de Filippo quando affermava che il teatro non è altro che il disperato sforzo dell’uomo di dare un senso alla vita.

“A volte non si può tenere tutto dentro. Forse, il teatro è nato così… in quale altro posto una persona può discutere con se stessa ad alta voce senza che la ricoverino?”

Andato in scena per la prima volta nel 2020 al Teatro Ghesher di Giaffa, Chi come me (Giuntina, traduzione di Shulim Vogelmann) è una pièce teatrale vivace, vibrante di vita, veloce nel ritmo, profonda nell’indagine, creativa di quella creatività colorata e visionaria a cui Roy Chen ci ha introdotto con il suo Anime.

Anche in questa storia, di adolescenti fragili in un centro di salute mentale di Tel Aviv, Chen, uno dei più acclamati scrittori israeliani, mette mano a un’esplorazione lucida e non scontata sull’identità.

Di fronte al disturbo bipolare di Alma, alla rabbia di Barak, allo spettro autistico di Emanuel, alla schizofrenia di Bat-Sheva che si sente un leone, e alla disforia di genere di Tamara/Tom che è prigioniero in un corpo di donna, ci accorgiamo di non essere al cospetto di una serie di disturbi dolorosi e socialmente invalidanti, ma di frequenze diverse che hanno bisogno di essere ascoltate per incontrare se stesse.

“Chi come me ha pianto questa settimana?”

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I cinque adolescenti sotto le cure del dottor Yoresh sono “i ragazzi”, frammenti di noi, di quello che siamo stati, di quello che siamo, senza rendercene conto, quando combattiamo con noi stessi e ci sentiamo chiusi verso gli altri. La sensibilità professionale di Yoresh verso i ragazzi lo conduce a sperimentare la terapia del dialogo, dell’ascolto, dell’interazione, che approda in un progetto teatrale.

Parlando di sé, facendolo anche per conto degli altri, scambiandosi i ruoli, scrivendo lettere al proprio io, e senza negarsi i conflitti della loro età, i cinque protagonisti sembrano indicarci una strada che è la più preziosa, di un’accettazione reciproca, che non è altro che comunicazione. L’interpretazione diventa terapia per trovarsi e al contempo mettersi nei panni degli altri.

In un momento in cui parlare di salute mentale è diventato tanto più importante, la visione rappresentativa di Roy Chen accoglie la diversità con la parola e la condivisione di emozioni.

“Noi sappiamo bene quanto sia facile mettersi a letto e quanto sia difficile alzarsi.”

Sul palcoscenico teatrale le mancanze diventano vantaggi, le paure nascoste vengono fuori, e si stendono contratti con se stessi, improvvisando abbracci e curando i propri incubi, chiedendo salvezza e trovandola nell’altro.

È un modo di costruire la pace, insieme: questi ragazzi che si lanciano scarafaggi, si prendono in giro, sfottendosi senza barriere, e giocano pericolosamente sul ciglio della morte, dimostrano un rispetto reciproco che gli adulti non possono capire. Rappresentato dai genitori dei ragazzi, che si succedono sul palcoscenico portando confusione e frustrazione, l’universo adulto è caotico, egoista, concentrato solo sui propri bisogni e sulle convenzioni sociali. Gli adulti sono come adolescenti senza la speranza: con lei hanno perduto la pace e la bellezza di immaginarsi altro, anche un leone, o una psichiatra, o un maschio.

Chi come me, che in primavera approderà sul palcoscenico milanese del Teatro Franco Parenti grazie alla regia di Andrée Ruth Shammah (sarà la sua ultima regia prima del ritiro dalle scene, ndr), nasce da un’esperienza reale dell’autore insieme ai ragazzi del centro di salute mentale di Abravanel e parla di porte che si aprono, di personalità che si costruiscono con gru di carta, con poesie e lettere, con il rifiuto della banalità, con la capacità, fantasiosa e pura, di andare incontro agli altri, anime erranti anche loro.

È un testo di spettacolo nello spettacolo, un percorso di creatività e un viaggio umano pieno di arguzia, che addolora e strappa un sorriso, mette in scena anime vere, che sperimentano la vita e il suo caos, e regala a chi legge un’esperienza molto intima e commovente utilizzando con sensibilità la chiave dell’umorismo.

Chi come me ci fa vedere da una prospettiva diversa quella che chiamiamo normalità, e il confine labile che la separa dal disagio, lavora sullo stigma della salute mentale, e fa emergere in superficie ciò di cui tutti noi abbiamo bisogno: qualcuno che ci lanci una corda immaginaria a cui aggrapparci, in mezzo alla nostra tempesta.

“E se a volte non riusciamo a curare la psiche, possiamo almeno prenderci un respiro profondo insieme… allora forza, tutti insieme, un respiro profondo, uno, due…”

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Fotografia header: Roy Chen, foto di Polina Adamov

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