Sospeso tra sogno e realtà, tra ragione e follia, l’israeliano Roy Chen gioca con il lettore, proponendo piani temporali e di lettura diversi, multiformi e fantasiosi. “Anime” è il suo intercalare, che apre finestre sulla storia. Nel suo stile c’è tutta la poliedricità della formazione dell’autore, la drammaturgia ironica, l’atmosfera onirica, un incedere sospeso e raffinato che affonda l’emozione nella memoria, nell’eredità culturale e tradizionale, per guardare alla sua vita, e con essa a quella di tutto un popolo…

“A giudicare dal nostro caso, le anime appaiono al mondo una volta ogni cento anni. Come se Dio aspettasse una nuova generazione che non ha conosciuto Ghetz e Ghittel, una generazione che non ha conosciuto Ghedalia e Gheyle, e così via. Almeno, noi due torniamo nel mondo contemporaneamente”

Di vita ce n’è una sola, il resto è una metafora, frutto di un’immaginazione troppo vivace. Ma è possibile anche che la vita sia una chimera, un sogno, l’illusione cara a Calderón de la Barca. Una vita può attraversare il tempo, inseguire la propria essenza attraverso corpi diversi, paesi ed epoche: è la vita che cambia, trasformandosi, mentre la morte non è niente, è sempre la stessa cosa. Nell’incertezza della realtà l’unica cosa certa si chiama anima, e quella di Grisha rincorre se stessa attraverso 400 anni.

Anime (Giuntina, traduzione di Shulim Vogelmann e Bianca Ambrosio) è l’opera incantata e visionaria di Roy Chen, scrittore, traduttore e drammaturgo israeliano: i suoi eroi sono anime erranti, lungo il tempo, la storia ebraica, e il mondo teatrale e caotico dell’autore.

anime

Il viaggio parte a Chorbitza, confederazione polacco- lituana, all’inizio del XVII secolo: nell’epicentro della tradizione del teatro ebraico, si compie un peccato, una pietra viene lanciata, un uomo muore nella neve durante la recita tradizionale di Purim. Ghetz ha 9 anni, sua sorella Ghittel 7, una treccia in bocca, un’infanzia in mezzo alle lapidi del padre artigiano, una festa, balli di uomini in abiti da donna, e una notte che finisce in tragedia. La pietra, la finzione di un’impiccagione scenica, in mezzo alle risate del pubblico e poi un cappio vero nel bosco, morsi di cane che lasciano il segno sulla carne: si compie tutto in un attimo, la vita è teatro.

Cambio di scena: il ghetto ebraico di Venezia, Ghedalia ha 17 anni, Gheyle pure, una treccia in bocca nella tipografia di famiglia, un gesto per riconoscersi. Il padre di Ghedalia impresta soldi su pegno, Ghedalia e Gheyle si promettono amicizia, complicità, forse amore, e una fuga. Finisce tutto in acqua, un sapore di ostrica che segna un peccato di identità.

Marocco, 1856: chi era maschio si risveglia lavandaia, un corpo di donna e un amante interprete che era una ragazza in un’altra vita. Gimol e Gavriel recitano una sceneggiatura che è un gioco delle parti, creazioni di un autore eccentrico che segue un suo superiore disegno, alla ricerca delle sue origini.

Dachau è un lampo, poche pagine di surreale alienazione, una scena allucinata e straniante dove si addestrano pulci e Gretchen è una ballerina in uno spettacolo grottesco. La chimera è diventata un assurdo, un frammento di recita così violento da diventare eterno.

A Giaffa, Grisha ha 40 anni, ma ne ha vissuti 400, ha tante sigarette, una vasca da bagno e una stanza dove scrivere ininterrottamente al computer una storia forse di fantasia: è il 2020 e sullo schermo le anime si rincorrono, in un susseguirsi di incontri dove espiare una colpa o rincorrere l’amore. Che forse sono la stessa cosa.

“Ghittel dentro Gheyle dentro Gavriel dentro Gretchen dentro… dov’è finita lei in tutto questo fumo del ventunesimo secolo? In fondo, scrivo per lei. Tutte queste lettere hanno un solo obiettivo, arrivare a lei”.

Anime di Roy Chen è un teatro mutevole e ironico, una girandola di storia ebraica che restituisce lustro alle tradizioni yiddish, con iconografie di sapore chagalliano, di vitalità sacra e colorata, attraversa il ghetto con tutto il suo vissuto comunitario e sociale, togliendogli ogni significato segregante, in Marocco incontra le radici familiari dell’autore, sopravvive all’orrore, costruisce un presente fragile.

La ricerca di Grisha attraverso le sue diverse anime è un viaggio identitario nel multiculturalismo ebraico, dalle origini ai tempi moderni, o all’indietro, non conta il tragitto quanto il senso magico delle esistenze vissute, in un racconto che unisce la formazione di Roy Chen, omaggia l’Orlando woolfiano ma è soprattutto debitore alla letteratura russa di cui Chen è esperto traduttore.

Perché per Grisha, come per l’autore, è emigrare la parola più vicina a reincarnazione, e il peregrinare delle anime è un percorso a ritroso a riprendere possesso di se stessi, una “legge del ritorno”, per un popolo che si è perso, smarrito, è emigrato.

Per la madre di Grisha tutto quello che nella mente del figlio è ricordo, non è altro che fantasia: con una lingua da immigrata, la russa Marina irrompe a spiare e sabotare il racconto, rivolgendosi al lettore, proponendo una lettura pragmatica all’incantesimo rocambolesco di anime, smontando con la logica il senso sovrannaturale della storia, sovrascrivendo una nuova narrazione nella quale Grisha è solo un solitario con pochi amici e troppi tormenti, dando una spiegazione a tutto.

“Non mi stupirei se fossero rimaste solo poche anime di quelle che erano con me all’inizio del libro. Vi supplico, voi che siete rimaste, non abbandonatemi. Le vostre mani che tengono il libro tengono me in vita. E se il vostro corpo chiede un po’ di riposo prima del prossimo capitolo, concedeteglielo. È ammesso riposarsi tra una reincarnazione e l’altra. Ma non vi dimenticate di tornare”.

Sospeso tra sogno e realtà, tra ragione e follia, Roy Chen gioca con il lettore, proponendo piani temporali e di lettura diversi, multiformi e fantasiosi. Anime è il suo intercalare, che apre finestre sulla storia.

Nel suo stile c’è tutta la poliedricità della sua formazione, la drammaturgia ironica, l’atmosfera onirica, un incedere sospeso e raffinato che affonda l’emozione nella memoria, nell’eredità culturale e tradizionale, per guardare alla sua vita, e con essa a quella di tutto un popolo.

E dunque, Lechayim, “alle vite!”, a tutte quelle esistenze che possono essere vissute, o immaginate: si rinasce costantemente, guardando indietro a chi non c’è più.

“Accendo delle candele in ricordo dei morti. Una candela per Yitzikel, una candela per papà Peretz, una candela per mamma Malkale, una candela per Pavel, una candela per i miei genitori veneziani, una per i genitori marocchini. Ho imparato ad amare tutti quelli che mi sono lasciata alle spalle.”

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