“La lingua che visse due volte. Fascino e avventure dell’ebraico” di Anna Linda Callow accompagna il lettore in un viaggio attraverso la storia e la letteratura di una lingua, e una cultura, millenaria – Su ilLibraio.it un estratto:

La lingua che visse due volte. Fascino e avventure dell’ebraico è un saggio di Anna Linda Callow (nella foto di Eva Munster ndr), pubblicato da Garzanti, che accompagna il lettore in un viaggio attraverso la storia e la letteratura di una lingua, e una cultura, millenaria.

L’ebraico è il più antico idioma al mondo a essere utilizzato in maniera pressoché identica da millenni, e attraverso liturgie e traduzioni è penetrato in molti lessici europei, italiano compreso: oggi è la lingua ufficiale di uno stato (Israele) e quella di una religione.

L’autrice (nata a Milano nel ’66), che ha insegnato per quindici anni Lingua e letteratura ebraica presso l’Università degli Studi di Milano e ha tradotto numerosi libri dall’ebraico, dallo yiddish e dall’aramaico, racconta la vicenda tutt’altro che lineare di questa lingua, che per secoli è stata usata solo da intellettuali e rabbini, sostituita dalle parlate che si sono create durante la lunga diaspora ebraica (per esempio lo yiddish).

Questo saggio inizia alla lettura di un alfabeto misterioso e fa scoprire vicende epiche come quella di Eliezer Ben Yehuda, che compilò un monumentale dizionario e allevò il primo bambino ebraicofono dalla nascita dopo secoli.

Per gentile concessione dell’editore, su ilLibraio.it un estratto:

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Il Novecento può essere considerato il secolo del ritorno dell’ebraico alla ribalta della storia. Mi è capitato di parlare con innumerevoli intellettuali israeliani, alcuni sionisti, altri postsionisti e altri ancora addirittura antisionisti convinti, ma tutti quanti erano innamorati come adolescenti della propria lingua, come in preda all’ebbrezza per il miracolo della sua rinascita: i genitori avevano parlato perlopiù altri idiomi in casa, e quindi a loro era toccato il ruolo dei pionieri.

Anche nella diaspora sono molti coloro che, pur non essendo né religiosi né sionisti, dedicano tempo ed energie ad apprendere l’ebraico: è diventato un modo per stabilire un legame identitario particolarmente adatto agli atei cosmopoliti (che spesso semplicemente detestano il concetto di identità e negano recisamente di possederne una). Lo studio di per sé, infatti, non è un’affiliazione politica né religiosa, può essere spacciato per mero interesse culturale tra tanti, ma che cosa c’è di più intimo dell’esprimere silenziosamente il dialogo interiore in una lingua scelta e coltivata con passione?

Anche in questo caso, tuttavia, non possono mancare i dissidenti: una parte dei cosiddetti ebrei ultraortodossi, per aperta ostilità nei confronti delle istanze di modernizzazione e secolarizzazione dell’illuminismo ebraico, si è semplicemente rifiutata di adottare l’ivrit come lingua della vita quotidiana. Siccome sono originari perlopiù dell’Europa orientale, preferiscono usare lo yiddish nei contesti profani, riservando la lingua santa al solo ambito del sacro: la preghiera e lo studio dei testi della tradizione. Per loro la rinascita dell’ebraico e la fondazione d’Israele sono altrettanti atti di umana tracotanza, di sfida al divino, compiuti da ebrei rinnegati che non hanno avuto la pazienza di attendere l’era messianica. Le mura di questa fortezza, però, si stanno progressivamente incrinando, la pressione di un’intera collettività che parla ivrit agisce soprattutto sulle donne ultraortodosse, che non passano le giornate al chiuso delle accademie talmudiche a discutere in yiddish degli antichi testi, ma spesso lavorano per mantenere i mariti, stando a stretto contatto con il resto della società. Non solo, dal momento che non sono vincolate dal precetto dello studio, che ricade solo sui maschi e che configura ogni attività non strettamente necessaria e diversa dallo studio stesso come bittul Torah, «cancellazione della Torah», ossia un colpevole spreco di tempo a danno dell’apprendimento dei sacri testi, negli ultimi decenni si sono date, sull’esempio di tante scrittrici israeliane laiche, alla produzione letteraria. Si tratta di romanzi dall’intento edificante più che artistico, e tuttavia costituiscono un fenomeno di grande importanza, perché sono parte di quella riappropriazione dell’ebraico da parte delle donne che, come fenomeno di massa, è pienamente novecentesco. Da quando infatti ha smesso di essere la lingua parlata correntemente dal popolo, e quindi da circa duemila anni, secolo più, secolo meno, l’ebraico è stato una faccenda maschile e i suoi protagonisti principali sono stati tutti uomini. La tradizione rabbinica, infatti, ha tendenzialmente seguito il detto di rabbi El’azar, un maestro del II secolo d.C.: «Colui che insegna la Torah a sua figlia è come se le insegnasse un’insensatezza» (Mishnah, Sotah III,4). Quando ricevevano un’istruzione, quindi, le donne imparavano sì l’alfabeto ebraico, ma non la lingua stessa, ed erano quindi in grado di leggere testi composti nella loro lingua parlata, purché fossero scritti con le lettere dei testi santi. Lo stesso accadeva con gli uomini incolti, che conoscevano l’alfabeto ma non avevano avuto il denaro o la testa per imparare l’antico idioma biblico.

La storia linguistica delle comunità della diaspora si svolse dunque su due binari paralleli: l’ebraico da un lato – coltivato dai maschi colti – e le «lingue ebraiche», parlate da tutti nella vita quotidiana, dall’altro: il giudeo-italiano, nei suoi vari dialetti regionali; il giudeo- spagnolo; il giudeo-arabo; il giudeo-persiano; lo yiddish (solo per citarne alcune).

(continua in libreria…)

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